Cry Macho – Ritorno a casa recensione film diretto ed interpretato da Clint Eastwood con Eduardo Minett, Natalia Traven, Dwight Yoakam e Fernanda Urrejola
Guess it’s really never too late
To find a new home.
(Will Banister / Cry Macho)
Questi i versi della colonna sonora che aprono Cry Macho – Ritorno a casa, ultimo film diretto ed interpretato da Clint Eastwood, presentato in anteprima alla 39ª edizione del Torino Film Festival.
Tratto dall’omonimo romanzo del 1975 Cry Macho di N. Richard Nash, Mike Milo (Clint Eastwood) è una ex famosa star dei rodei e conosciuto per le sue abilità con i cavalli. Ormai anziano, viene incaricato dal suo amico Howard (Dwight Yoakam) di riportare in Texas il figlio Rafo (Eduardo Minett) maltrattato dalla madre alcolizzata.
C’è tanta voglia di strapparsi di dosso l’etichetta di gringo in Cry Macho – Ritorno a casa. Clint Eastwood, novantunenne, dirige un film ben lontano dal genere western che tanto deve a Sergio Leone e alla sua Trilogia del dollaro. Quello straniero senza nome, adesso, un nome ce l’ha ma non è un più un macho che spara con la sua pistola e porta a casa il bottino. Di bontà ce n’è tanta qui, e Mike la (ri)scopre durante il suo viaggio per il Messico. E un bambino di tredici anni lo aiuta nel suo percorso di redenzione, salvandolo dai suoi problemi di alcolismo.
Tuttavia, non saranno i cavalli o le ambientazioni tipiche a ricordare il vecchio e autorevole western eastwoodiano. Ci si affeziona di più all’anti-western Gli spietati (1992), con un antieroe che di eroico ha solo la reputazione. Come in Cry Macho – Ritorno a casa in cui Mike Milo, da latin lover con una collezione di trofei in casa, si trasforma in un uomo che ha perso tutto, che non ha più una vita. Per ritrovarla altrove, lontano da quel posto che lo ha ucciso dentro.
Più che Clint Eastwood, il macho del film è il gallo nero con la cresta rossa di Rafo che combatte per qualche spicciolo. Adesso, il vecchio macho con gli speroni piange e tocca la sua (ri)nascente ipersensibilità.
È un riscatto alla vita perduta il 39esimo film del regista Eastwood. Un riscatto che indossa un bell’abito di una donna messicana di nome Marta (Natalia Traven) che gli fa riscoprire la gioia di vivere. Perché “non è mai troppo tardi per trovare una nuova casa“. Un ritorno che voleva tanto e che finalmente ha (ri)trovato.
Di autobiografismo ce n’è eccome, e la cinepresa di Eastwood lo vuole proprio far vedere. Con l’intenzione, però, di scrollarsi il suo buon nome legato al western puro e inquadrare un momento della vita che dal passato guarda al futuro, passando per il presente.
Che ci siano o meno le venature western, che sia o no il suo testamento cinematografico, Clint Eastwood fa i conti con il suo stesso cinema e gli si scaglia contro edificando un sentimentalismo romantico che nasce dal dolore e dalla sofferenza interiore. E, ancora una volta, spara uno dei suoi colpi migliori.
Appendi pure il tuo cappello da cowboy e riposati un po’ adesso, Clint.