Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer recensione serie TV di Ryan Murphy e Ian Brennan con Evan Peters, Richard Jenkins, Molly Ringwald e Niecy Nash
Le tue mandibole sono perfette.
Hai una struttura ossea che sembra disegnata.
Ti osservavo mentre ballavi e la luce esaltava i tuoi lineamenti.
(Evan Peters in Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer)
Non è mai semplice quando l’orrore del reale supera ben di molto quello della finzione.
Trattare argomenti come omicidio, violenza sessuale, cannibalismo potrebbe sembrare un eccesso di morbosità all’interno di un’opera di fiction: in questi casi la possibilità che il pubblico destinatario stesso equivochi le intenzioni di un autore è molto alta.
Forse anche per questo motivo la nuova serie di Ryan Murphy, autore di franchise di successo come American Horror Story, ha generato così tante critiche e polemiche.
Parliamo infatti oggi di una delle serie TV più viste su Netflix ma anche più discusse dell’ultimo periodo, vale a dire Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer. Al di là del dibattito polemico nel quale non abbiamo intenzione di addentrarci, analizzeremo invece le specifiche di questa serie e del perché nonostante tutto essa abbia ricevuto un’ottima accoglienza sia dal pubblico e sia dalla critica.
Sradicare i pilastri della cultura conservatrice americana
Uno degli aspetti che maggiormente risulta in evidenza durante la visione di Dahmer è la sistematica decostruzione dei miti conservatori su cui si basa una rilevante fetta della società made in USA. La vita del serial killer, infatti, non viene centralizzata in una visione meramente morbosa del suo operato, ma viene abilmente inserita all’interno di un contesto più ampio.
Il periodo in cui è ambientata la vicenda, in prevalenza dalla seconda metà degli anni ’70 fino ai primissimi anni ’90, rappresenta il periodo clou del cosiddetto NeoCon: si tratta del neoliberismo che prese piede soprattutto durante il reaganismo degli anni ’80, dove alla cultura della solidarietà e del libertarismo figlia del Sessantotto subentrò una cupa visione tradizionalista e integralista della società, con un ritorno al mito interventista repubblicano e una normalizzazione dell’individualismo più totale.
E sotto la lente critica di Ryan Murphy finiscono proprio i pilastri di questa cultura conservatrice e neoliberale: forze dell’ordine, famiglia e Dio.
Ciò che si delinea, in primo luogo, è la brutalità e la crudeltà che la polizia e le forze dell’ordine in generale riservano alle minoranze, che diventano solo dei “reietti” in quest’ottica. Un’aberrazione e un abominio per cui il ‘to protect and to serve’ non ha alcun valore.
Un ruolo predominante in questa insofferenza verso il diverso è anche il grande impatto che ha il culto della “famiglia tradizionale”: anche in questo caso xenofobia e omofobia diventano dei valori sui quali cementare una sorta di nuovo ordine. Qualsiasi cosa vada contro questa morale deve essere spazzato via.
A concludere questo quadro desolante e angosciante c’è l’iper-religiosità di un’intera classe sociale orgogliosamente “cristiana” che utilizza Dio come pretesto per diffondere odio.
Dahmer: il teorema dell’abbandono
Pertanto i pilastri della società sopra citati diventano la cartina tornasole del reale, e così facendo spicca il vero volto del cosiddetto “Sogno americano” che emerge come un vero e proprio incubo. Attorno a questo incubo reale si sviluppa un vero e proprio teorema dell’abbandono, dove Jeffrey Dahmer da vittima sacrificale assume il ruolo di carnefice.
E non è assolutamente un caso il fatto che nelle prime puntate la colonna sonora ricorrentemente riprenda Please Don’t Go di KC & The Sunshine Band: Jeffrey Dahmer, anche se un soggetto potenzialmente già disturbato, diventa ciò che è perché viene costantemente e ripetutamente abbandonato dalla società e dalle persone che gli stanno attorno.
Il “Sogno americano”, infatti, non ammette deviazioni: Jeffrey deve necessariamente crescere come un soggetto integrato, bianco di buona famiglia ed eterosessuale.
Peccato che, suo malgrado, Jeffrey non rientri per nulla in questi parametri: è omosessuale, la sua famiglia lo ha praticamente abbandonato a sé stesso e le sue pulsioni sessuali/violente finiscono per dominarlo.
Anche in questo caso il ritratto della società Made in America è impietoso: l’individualismo e il perbenismo di facciata che governa il mondo in cui vive non fa nulla per valutare i suoi demoni interiori.
E i “malati di mente”, come tutte le altre minoranze, non meritano l’attenzione di un universo che premia come vincitori cinici e prevaricatori.
Un’ottima interpretazione per Evan Peters
Ovviamente la serie si basa prevalentemente su una prestazione eccellente di Evan Peters, un attore che senz’altro è stato fin troppo sottovalutato fino ad ora.
“Cresciuto” da Ryan Murphy come uno dei protagonisti di svariate serie del già citato American Horror Story, Peters si è fatto notare negli anni al Cinema in ruoli più mainstream come il personaggio di Quicksilver nei film degli X-Men accanto a ruoli maggiormente impegnati come in American Animals (2018) di Burt Layton e ancora sul piccolo schermo con Omicidio a Easttown (2021) di Brad Ingelsby e diretta da Craig Zobel.
Ed è in questo caso che la prestazione di Evan Peters raggiunge livelli molto alti: non è affatto semplice interpretare un “Mostro” sulla scena.
Si tratta di uno di quei ruoli che può consumarti dentro: ciò nonostante, Evan Peters non si fa prendere la mano e non scade in un’inutile teatralità. Anzi, ci guida per mano in quest’Odissea del delirio e della solitudine, ci rende partecipi in modo ambivalente alle sespressioni del suo dolore, della sua rabbia e di contro anche del suo sadismo e della sua violenza.
Un cast decisamente azzeccato
Accanto alla sua prestazione davvero sopra la media spuntano anche delle buone interpretazioni dal resto del cast, che allo stesso modo interpretava senz’altro ruoli difficili ed estremamente sfaccettati, un compito non facile da tradurre sul piccolo schermo.
Degna di nota è soprattutto la prova di Richard Jenkins (noto al cinema per L’ospite inatteso di Tom McCarthy, per il quale è stato candidato all’Oscar e in TV per aver interpretato Nathaniel Fisher Sr. nella Serie HBO Six Feet Under), nel ruolo dell’ambivalente padre di Jeffrey, Lionel Dahmer.
Ma senz’altro ha un ottimo impatto di performance anche l’attrice Niecy Nash, veterana delle produzioni televisive e che recita nel delicatissimo ruolo della vicina di casa di Jeffrey, Glenda Cleveland. Un ruolo importante che simboleggia senz’altro la voce del popolo, che vede nella vicenda di Dahmer l’ennesimo schiaffo alle minoranze in America.
Conclusioni
Emerge dunque palesemente che chi condanna in maniera aprioristica una serie TV come Dahmer non riesca a coglierne pienamente le intenzioni.
Non è infatti il sangue o la volontà di crogiolarsi nell’orrore ciò che emerge da quest’opera: ciò che invece prepotentemente esce fuori dai bordi dello schermo è una profonda riflessione sulle contraddizioni di un’intera nazione e di un intero sistema “occidentale”. Il dito infatti è direttamente puntato nei confronti dello spettatore: l’illusione del benessere e della civiltà può convivere con i lati più efferati e oscuri delle nostre personalità?
Siamo davvero tutti così sani? O, citando il Joker del fumetto Batman: The Killing Joke (Alan Moore e Brian Bolland, 1988) ne emerge un quadro fortemente idiosincratico dell’uomo medio come “il più raro e tragico degli scherzi di natura. […] Come può vivere, già vi odo domandare? Come può questo povero, patetico esemplare sopravvivere nel mondo spietato e irrazionale di oggi? La triste risposta è “Non molto bene”. Posto di fronte alla realtà ineludibile della follia, della casualità e della futilità dell’esistenza umana, uno su otto di essi cede, riducendosi a un bruto vaneggiante!”
Bene, che ci crediate a no, il senso più profondo della serie di Ryan Murphy poggia esattamente sullo stesso corollario.