La mostra Dario Argento – The Exhibit al Museo Nazionale del Cinema di Torino continua fino al 16 gennaio 202
Nella storia del cinema italiano, pochi registi sono stati iconici e capaci di parlare a un pubblico internazionale quanto Dario Argento. La sua capacità mitopoietica, destinata a influenzare l’horror dell’ultimo mezzo secolo su scala globale, è confrontabile solo a quella di Federico Fellini, e anche se il suo percorso registico è stato decisamente altalenante e discontinuo, tra gli anni settanta e ottanta del Novecento ha saputo inanellare una dopo l’altra una serie di pietre miliari del giallo e dell’horror all’italiana, realizzando in appena una dozzina d’anni capisaldi del genere come L’uccello dalle piume di cristallo, Quattro mosche di velluto grigio, Tenebræ – uno dei primi “horror al sole” – e, soprattutto, Profondo Rosso e Suspiria, i suoi due titoli più noti. In occasione dell’ottantesimo compleanno e dell’uscita al cinema di Occhiali Neri, la sua ultima fatica presentata alla Berlinale 2022 dopo un silenzio registico insolitamente lungo per i suoi standard, il Museo Nazionale del Cinema di Torino ha dedicato un’importante mostra che ripercorre integralmente la carriera di Dario Argento, dagli esordi come critico e sceneggiatore fino agli ultimi titoli.
C’è da dire che Torino è sempre stata una delle “città d’elezione” del cinema argentiano, sotto lo sguardo di un regista sempre capace di traslare tutte le location scelte per i suoi film secondo ottiche misteriche inedite ed atipiche. Tra i quasi venti titoli della filmografia di Argento, sono ambientate o comunque girate a Torino alcune scene di capolavori come Il gatto a nove code (1971), Quattro mosche di velluto grigio (1971) e Profondo Rosso (1975), e anche titoli più recenti quali Non ho sonno (2001), Ti piace Hitchcock? (2005), La terza madre (2007) e Giallo (2009), con il premio Oscar Adrien Brody. Ad evidenziare il carattere metafisico della città di Torino nel Novecento ci fu anche Elémire Zolla, e questo fu uno dei tanti punti di contatto tra due curiosi e diversissimi co-protagonisti della cultura italiana del Novecento che pure non si sono mai incontrati. Certo è che la Mole Antonelliana del Museo del Cinema di Torino era la location più adatta possibile per una mostra sul cinema di Argento, e i due curatori, il noto critico Marcello Garofalo e il nuovo direttore del Museo Domenico De Gaetano, hanno saputo trovare il giusto equilibrio tra la divulgazione per un pubblico generico e l’aneddotica rivolta ai fan più fedeli del cinema argentiano.
Dario Argento – The Exhibit a Torino diventa così una notevole esposizione di memorabilia: da locandine d’epoca dei vari film di Argento a props realizzati da maestri degli effetti visivi del calibro di Sergio Stivaletti e Carlo Rambaldi, fino ad arrivare alla scimmietta assassina della sequenza iniziale de La terza madre, sono non pochi i modellini, i props e gli altri oggetti di scena che compaiono tra le anse della lunga struttura elicoidale all’interno della Mole, lungo la quale le varie tappe e pannelli della mostra sono stati montati. Su questi pannelli le informazioni non possono essere che generiche, e numericamente limitate: eppure, poste a mo’ di citazioni, non mancano affermazioni interessanti, da parte di Dario Argento, sui suoi stessi film, come quella per cui Le cinque giornate con Adriano Celentano, l’unico film non thriller-horror da lui diretto, è stato per lui un modo di rielaborare le suggestioni e le angosce del Sessantotto.
Dario Argento – The Exhibit rappresenta anche un’occasione per interrogarsi sulle ragioni del cinquantennale rapporto, a volte ai margini della venerazione, che lega il regista ai suoi fan. Qual è in ultimo la cifra autentica del cinema argentiano, da cosa deriva il brivido che tutti i suoi film migliori ci hanno fatto provare? Come rimarcato da una delle citazioni messe meglio in evidenza dai cartelli della mostra di Torino, e dallo stesso curatore Marcello Garofalo al momento della presentazione della mostra, il cinema di Argento insegue le suggestioni dei pericoli della vista: personaggi che muoiono per aver voluto “vedere troppo”, personaggi che inseguono per tutto il film la spiegazione di un omicidio o di un altro fatto inspiegabile che loro hanno visto, sì, ma visto bene, fino alla cecità di cui cade vittima la protagonista del suo ultimo film, Occhiali Neri, dopo essere scampata per miracolo a un incidente automobilistico scatenato da un nuovo serial killer a caccia di prostitute. Enzo Ungari, grande critico marxista autore de Immagine del disastro e co-sceneggiatore di Bertolucci, una volta scrisse che la cecità ha sempre un effetto perturbante nei film in cui essa è rappresentata, perché si crea un controsenso tra il medium specificatamente visivo che è il cinema, e l’impossibilità di vedere avvertita dal personaggio in questione.
Non solo: l’idea di personaggi che muoiono per aver visto o voluto vedere troppo si riallaccia direttamente alle radici più archetipiche della tragedia antica, a narrazioni come quella di Edipo, che nei primi atti della tragedia a lui dedicata manifesta la volontà imperterrita e ostinata di “vederci chiaro” nelle vere ragioni della peste che affligge Tebe, salvo poi scoprire, negli atti finali del dramma, di essere lui il vero colpevole e l'”agente contaminante” che ha provocato il morbo in città. Quella stessa ostinata “volontà di vedere”, sottogenere e al tempo stesso prolungamento della volontà di sapere diagnosticata dal filosofo francese Michel Foucault in materia di morale sessuale, la si ritrova in personaggi che attraversano in lungo e in largo la filmografia di Dario Argento, e, passando per capisaldi quali Profondo Rosso o lo stesso Suspiria, arriva fino all’ultimo Occhiali Neri.
Un aspetto che l’ormai sterminata mole di studi, di aneddotica e di fan literature sul cinema di Argento non ha ancora dissodato a dovere è l’evidente derivazione tra Profondo Rosso, caposaldo del cinema argentiano datato 1975, e Blow-Up, capolavoro di Michelangelo Antonioni premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes del 1966 e destinato a riscuotere un inaspettato successo in tutto il mondo, diventando uno dei film-simbolo della controcultura sessantottina e ricevendo addirittura due nomination all’Oscar. Blow-Up e Profondo Rosso non condividono solo lo stesso protagonista, il compianto attore inglese David Hemmings, morto nei primi anni duemila poco dopo aver preso parte a Il Gladiatore di Ridley Scott: i due capisaldi del cinema antonioniano e del cinema argentiano presentano anche un’analoga struttura narrativa e concettuale, dominata tutta dal tema dell’indagine visiva, pericolosa, pericolante, destinata a confluire in un'”epifania negativa” che sciocca tanto il protagonista fotografo di Antonioni quanto il pianista al centro del cult di Dario Argento. Evidentemente tra i due film ogni paragone sarebbe inclemente, a seconda del metro che si intenda adottare: Blow-Up traccia una densissima riflessione metavisiva e metaconcettuale, Profondo Rosso è un thriller di razza, connotato da una visionarietà perturbante e da una musicalità che ha fatto epoca.
Eppure, se c’è una cosa che la filmografia di Dario Argento dimostra bene, e che la mostra alla Mole Antonelliana di Torino contribuisce a evidenziare, è che anche il cinema horror può essere “d’autore”.