Daunbailò recensione film di Jim Jarmush in edizione restaurata con Tom Waits, John Lurie, Roberto Benigni, Ellen Barkin e Nicoletta Braschi
Le dediche e le premiazioni
Pascale Ogier ed Enzo Ungari, lei attrice appena ventiseienne stroncata da un infarto nel 1984, poco dopo aver vinto la Coppa Volpi per la miglior attrice alla Mostra del cinema di Venezia con Le notti della luna piena di Éric Rohmer.
Lui critico cinematografico e sceneggiatore italiano, responsabile della sezione Mezzogiorno/Mezzanotte della Mostra del cinema di Venezia (1979 e 1982) e collaboratore alla sceneggiatura de L’ultimo Imperatore del compianto Bernardo Bertolucci. Due nomi che chiudono l’ora e cinquanta del terzo film di Jim Jarmusch, Daunbailò, a loro dedicato e presentato in concorso al 39º Festival di Cannes con nomination alla Palma d’Oro, non vinta. Unici premi portati a casa saranno il Nastro d’Argento per Benigni come Miglior Attore Protagonista e il Premio Amanda come Miglior Film Straniero, entrambi nel 1987; poi il Robert e il Bodil come Miglior Film Straniero e Miglior Film non Europeo nel 1988, importantissimi riconoscimenti cinematografici danesi.
Nel mese di agosto Movies Inspired lo riporta nelle sale, in versione restaurata offrendo ai cinema che lo permettano un’occasione d’oro per aprire le porte a cinefili e amanti del cinema d’autore.
Cosa aspettarsi da Daunbailò?
Dove passa Jarmusch non cresce più un filo d’erba, le strade si svuotano, gli edifici sembrano rovinarsi minuto dopo minuto, la desolazione e la decadenza delle location profumano di cristi post-apocalittica, grave postumo di una sbornia da crack economico o città in pieno lockdown da COVID-19 (un cinema sempre attuale, dunque).
Questa New Orleans jarmuschiana, Anni ’80 e in bianco e nero, grazie all’occhio di Robby Müller è sia misteriosa e poetica sia priva di fiducia nel genere umano, misantropica per così dire; una città assai criminale fotografata con luci naturali e una monocromia da film noir che è il riflesso della duplice faccia del sistema americano, del sogno che tanto promette, della propaganda di cui tanto va fiero.
La comicità jarmuschiana permea l’intera pellicola, lascia una sensazione ambigua che a momenti fa dubitare nel prendere sul serio il film o riderci su; un perfetto equilibrio da cinema indipendente che pochi come lui sono riusciti a creare.
Un’opera silenziosa ma all’improvviso ricca di dialoghi dall’accento e sapore italiano, musicata dal jazz di John Lurie e dalla voce malinconica e grave di Tom Waits. Un cult imprescindibile che vede come protagonisti tre “down-by-law”, un trio di fuorilegge e disadattati/emarginati, che si ritrovano a condividere la stessa cella formando un triangolo cinematografico che ha dell’assurdo e del paradossale e che poche altre volta si è venuto a creare (ricordiamo i fratelli Fiorello che ad Ischia giocano a bocce e la sera cantano tu vuo’ fa l’americano nei locali della movida, in entrambi i casi con Matt Damon e Jude Law).
Daunbailò: la trama
Il magnaccio Jack (il musicista John Lurie) viene incastrato da un collega e fatto passare come pedofilo dopo aver aperto la porta della stanza d’hotel dove pensava di trovare una ragazza ad attenderlo, non di certo una bambina.
Zack (Tom Waits) dj radiofonico e truffatore che ormai non ha più un soldo, non ha più averi, non ha più una compagna e per poco non avrà più neanche le tanto amate scarpe a punta laccate, una notte accetta, per mille dollari, di fare un viaggio d’affari illegale con una “macchina di lusso costosa ed estera”, la bellissima Jaguar fermata dalla polizia e che lo incastrerà perché nel bagagliaio conserva il cadavere di un uomo. Per la polizia è Zack l’assassino, non ci sono dubbi. Eccoli lì, allora, Zack e Jack a condividere la stessa cella. A non rivolgersi la parola e disprezzarsi, a sfidarsi a chi è più cool tra i due. Sguardi impassibili e seriosi, nervosi e delusi.
A rompere l’equilibrio di tensione che si è venuto a formare arriva il nostrano Roberto Benigni (sua prima collaborazione con il cineasta dell’Ohio), qua trasognato turista italiano negli States, sempre positivo e amante della letteratura e poesia americana, anche se tradotta in italiano (il ché diverte non poco Zack). E’ dentro con l’accusa di essere un assassino e sembrerebbe essere l’unico vero colpevole tra i tre. Chiacchiere forzate e battute all’italiana, lo spirito benigniano che ancora crede nel sogno americano riesce a conquistare la fiducia e le simpatie dei due statunitensi, e quando confessa di aver capito come fuggire dalla prigione, è inevitabile fidarsi. Il piano funziona e porta i tre a perdersi nel bayou, l’ecosistema del delta del Mississippi, ricco di distese paludose a formare una rete navigabile. L’italiano non sa nuotare e viene lasciato al suo destino, poi Zack torna a salvarlo; e meno male, perché Roberto si dimostra essere anche un abile cacciatore; e così la cena è assicurata, lepre arrosto. Litigi e divergenze di punti di vista non mancano, la tensione è sempre alle stelle e la polizia non smette un secondo di cercarli; non la vediamo ma lo immaginiamo, perché siamo il quarto uomo che insegue i tre, come sempre nel cinema di Jarmusch ci identifichiamo con i personaggi, gli stiamo (come già detto in precedenza) alle calcagna, sempre e comunque.
Insieme a loro infine giungiamo a una locanda dispersa nel nulla, dove ad aspettarci c’è Nicoletta Braschi, qua erede del locale e futura compagna di Benigni; basta infatti un piatto di pasta per farli innamorare, come fossimo in una favola a lieto fine, “in un libro per bambini”. Zack e Jack se la ridono, sono incuriositi da ciò che sta avvenendo, vestono gli abiti dello zio di lei e riflettono sul da farsi.
Lungo la strada c’è un bivio, due strade che regaleranno due nuove vite e destini ai quasi omonimi.
Jarmusch come al solito lascia il dubbio, non svela il futuro dei suoi personaggi, ci lascia fantasticare e sognare l’avvenire. Roberto avrà il suo finale da favola ma gli altri due troveranno un nuovo amore, un nuovo lavoro? O la polizia sarà lì ad aspettarli e passeranno il resto dei loro giorni in una lurida cella? Ai posteri l’ardua sentenza.