Tra gli eventi più attesi della Mostra, la masterclass di David Cronenberg, Leone d’Oro alla Carriera, si apre con una standing ovation del pubblico. Per precisa scelta, più che su un’analisi della sua filmografia, la lezione verte sul futuro del cinema e sull’innovazione, temi dei quali si sta dibattendo sempre più spesso in questo periodo.
Il regista canadese comincia parlando di Netflix, smentendo (senza grande convinzione) la notizia circolata nei giorni scorsi sul lancio di una sua serie tv e sottolineando le potenzialità di questo nuovo mezzo. Cronenberg va un po’ controcorrente rispetto ai suoi colleghi: non ha nostalgia del vecchio cinema fruito in sala e per quanto riguarda la sacralità della settima arte, termine coniato da Godard, la sua affermazione “serve un cattolico per crederci” non lascia alcun dubbio.
La sua formazione più letteraria che cinematografica lo porta ad avere un atteggiamento di grande libertà e a definire addirittura “un’esperienza migliore” la fruizione di The Shape of Water in dvd rispetto a quella in sala. È un discorso molto tecnico quello del regista canadese, che diviene un elogio della serialità, più simile a un libro ma con un processo creativo paragonabile a quello della realizzazione di un film.
Cronenberg si dà molto alla platea e passa da un tema all’altro, rispondendo con ironia e franchezza a tutte le domande poste dal pubblico presente. Si passa dalla differenza tra regia e recitazione (“non voglio sostituirmi a chi dirige, anzi quando sono sul set come attore cerco la sua approvazione”) alla nuova serie tratta dal suo libro Divorati (“non sarà scritta da me”); dal concetto di sceneggiatura (“per me è come un haiku”) al rapporto tra scienza e tecnologia (“io ho vissuto il passaggio dalla radio alla televisione e internet è stato ovviamente rivoluzionario”).
Cronenberg punta tutto sull’innovazione e non rimpiange la pellicola: “Personalmente l’ho sempre odiata. Quando un film arriva nelle sale tutto è differente rispetto a quanto ci si aspettava. La pellicola è frustrante perché è come se creasse una pessima fotografia di un bel dipinto”. Ovviamente, il suo discorso presuppone invece un elogio del digitale che è “più istantaneo, più immediato”. Con questa tecnica è possibile “ricontrollare le scene più velocemente e, di conseguenza, avere una maggiore padronanza del film”.
Dopo un lungo discorso iniziale, Cronenberg arriva a parlare anche dei suoi film e parte da quello che avrebbe scelto come rappresentante del suo cinema alla Mostra. Il regista aveva, infatti, pensato a Crash ma la sua proiezione non è stata possibile perché l’opera tratta dal romanzo di Ballard necessita di un restauro. Da qui, una delle battute più divertenti della masterclass: “Con Crash non intendo il film premio Oscar ma quello migliore”.
M. Butterfly è stato scelto, invece, perché non molto visto e per il fatto di essere uno dei maggiori esempi di un tema cardine della sua filmografia, non tanto quello del corpo quanto quello dell’identità. La sua è stata una vera e propria volontà di forzare la gente a guardarlo. Interrogato sulle prospettive future della realtà virtuale, Cronenberg risponde candidamente di non conoscerne le potenzialità per un problema personale, ovvero il fatto di non resistere fisicamente a questa tecnologia (“dopo 3 minuti vomito”).
Spazio anche al concetto di censura, un elemento di grande complessità per la libertà degli artisti, al punto da ricordare come uno dei giorni più importanti della sua vita la prima proiezione di Crash in Canada. Sui remake è molto diretto: semplice mancanza di idee, anche se la validità di queste operazioni dipende dalla qualità e “nel caso della Mosca è molto elevata”. Interrogato sui suoi riferimenti cinematografici, il regista canadese torna al passato e ricorda di quando incontrò una serie di adulti che uscivano da una sala specializzata in classici italiani piangendo: quel film era La strada di Federico Fellini. Fu da quel giorno che capì che il cinema può anche essere un’arte.
Spazio anche per la filosofia e per la sua passione per Sartre, preferito ad Heidegger perché (“era un nazi”), per i droni (“tecnologia fantastica per il cinema”) e per il suo rapporto con Burroughs (“gli è piaciuto il mio modo di girare e non ha interferito nella realizzazione del film. Nella vita privata era una persona molto dolce, diverso da quanto mostrato in pubblico”).
Chiusura, inevitabile, sulla pittura, della quale ha sempre tenuto conto per la realizzazione dei suoi film, coinvolgendo fotografi e production designer. Un tema che lo porta nuovamente a ribadire il suo essere innovativo: “Molti pensano che un colore non sia riproponibile in digitale ma questo non è vero. Della pellicola mi manca solo l’odore”. Una chiusura ad effetto per un’immersione di un’ora e un quarto nella mente di uno dei più visionari registi della storia del cinema.
Sergio