Decision to Leave recensione film di Park Chan-wook con Park Hae-il, Tang Wei, Lee Jung-hyun, Go Kyung-Pyo e Park Yong-woo
Si rimane invaghiti del cinema sudcoreano. In Italia arrivato negli ultimi anni, accantonato in un angolino al buio per troppo tempo e poi esploso a un certo punto con un regista premio Oscar che solo a nominarlo ritorna alla memoria il suo scintillante Miglior film non in lingua inglese. Lui, Bong Joon-ho e il suo capolavoro Parasite (2019). Una magistrale combinazione di dramma a tinte dark thriller con venature ironiche che si dipana sulle tortuose vie del colpo di scena finale di una trama intricata ricca di simbolismo. Parasite, un film che si è accaparrato un posto in prima fila nella storia del cinema internazionale grazie anche al suo perfezionismo tecnico con metafore registiche, celebrative nel loro incisivo significato.
Bong Joon-ho da una parte e Park Chan-wook dall’altra, esemplari capisaldi di un cinema orientale raffinato.
E sul fil rouge di tanta sofisticata pedanteria coreana, Park Chan-wook sente il bisogno di lasciare ancora una volta una forte impronta nel suo Decision to Leave. Un vorticoso e a tratti meno travolgente thriller dai toni noir che si mescola alle dolci note di un amore consumato solo a parole ‒ chissà che non ci sia qualche incursione di quel famoso amore platonico ambientato a Hong Kong che richiama In the Mood for Love (2000) di Wong Kar-wai ‒ che si riversa nelle registrazioni vocali e nei rapidi messaggi inviati da uno smartphone all’altro con una punta di maniacale attrazione verso i tempi moderni. Inebriati dal monopolio di un oggetto così vitale al giorno d’oggi da prostrarsi ormai ai piedi del suo potere dominante.
Decision to Leave dimentica la feroce violenza della “Trilogia della vendetta” degli anni 2002 – 2003 – 2005 (Mr. Vendetta, Old Boy e Lady Vendetta), scioglie qualche linea narrativa dal tessuto fittamente aggrovigliato e pregiato di Mademoiselle (2016) e lo impreziosisce di piani sequenza, virtuosismi in soggettiva come fossimo all’interno di un videogioco, primi piani, primissimi piani, campi medi e inquadrature voyeuristiche alla maniera hitchcockiana de La finestra sul cortile (1954), che assillano il detective Jang Hae-jun (Park Hae-il) sul caso di omicidio di un uomo in cui è coinvolta la scaltra vedova Song Seo-rae (Tang Wei). C’è tutto nel film premiato per la Miglior Regia al Festival di Cannes: rigorismo registico, una storia morbosa fatta di macabre scoperte e profonde rivelazioni, omaggio ai grandi classici della storia del cinema riadattati adesso a un modo di fare cinema spiazzante che indossa l’abito elegante dei social. Eppure.
Eppure, in molte scene che dovrebbero tenere con il fiato sospeso per un imminente turning point, si ha l’impressione di precipitare in uno strapiombo avvolto da una lenta alienazione. Come se l’empatia maturata fino a quel momento fosse sospesa nell’aria, forse in un voluto momento (auto)riflessivo, forse per prepararsi al tragico finale che non lascia scampo. Lo spettatore, il voyeur che guarda dentro la voragine della sua interpretazione narrativa che a un certo punto non riesce più a liberarsi. Estraniato da quella storia che a un tratto perde il suo intrigante sentimento. Fino a quando un’immensa coltre d’acqua sommerge ogni indicibile segreto. E la liberazione sottoforma di un blu abissale come l’oceano lava via ogni traccia dell’esistenza, sepolta e urlata nel pianto straziante di Jang Hae-jun.