Disco Boy recensione film di Giacomo Abbruzzese con Franz Rogowski, Michal Balicki, Matteo Olivetti, Morr Ndiaye e Laetitia Ky
Un dissidente del Delta del Niger sogna il dancefloor? Secondo Disco Boy sì e non è soltanto una suggestione o una provocazione. Si tratta più di una connessione ancestrale, un fil rouge che unisce misteriosamente popoli e continenti altrimenti distanti. La fuga di Aleksei (Franz Rogowski) dalla Bielorussia si salda con la guerriglia africana condotta da Jomo (Morr Ndiaye) contro i colossi del petrolio in Africa sulla dorsale di un’identità per cui bisogna trasversalmente combattere.
L’esordio nel cinema di finzione di Giacomo Abbruzzese scompone la matrioska che nasconde la vita in una serie di movimenti che spingono i corpi ad incontrarsi sotto la luce frammentata ma allo stesso tempo ricomposta della strobosfera. Se al di qua del Mediterraneo Aleksei cerca di rinascere superando la brutalità della Legione Straniera, al di là del mare nostrum Jomo prova con ogni mezzo a fare in modo che l’essenza della sua terra non venga succhiata dalle pompe petrolifere. Sono due direzioni apparentemente opposte, ma che condividono la necessità di sopravvivere per conquistare la vita. La storia li porta ad un incontro mortale, fotografato in maniera splendida da Hélène Louvart, in cui le masse termiche inquadrate da una camera – che si trasforma in visore militare – si liberano dei rispettivi personaggi.
Sulla superficie c’è la morte, ma questo particolare regime visivo racconta allo spettatore che avviene piuttosto un passaggio di energia da un corpo all’altro. Jomo viene assorbito, o forse ingoiato, da Aleksei. Ne diventa l’avatar trascendendo il normale avvicendarsi del cerchio vitale. E’ il momento, per Disco Boy, di abbandonare la logica della realtà e seguire una dimensione istintiva in cui cercare di parlare senza emettere suoni. Aleksei segue il richiamo e le tracce di Udoka (Laetitia Ky). Un nuovo ritmo e un cambio di passo rischioso e non del tutto riuscito, in cui la metafora e la struttura diventano una prigione anche estetica per una storia dal respiro troppo ampio.
Il primo lungometraggio del regista si consegna al sogno e si nasconde nei suoi meandri parlando forse un po’ troppo a se stesso, dimenticandosi del pubblico. Disco Boy patisce lo squilibrio tra la storia e la sua rappresentazione, lasciando progressivamente che la seconda sovrasti la prima. Un peccato, perchè il lavoro sulle immagini di Giacomo Abruzzese è stimolante ma non è supportato da una storia altrettanto potente ed ciò che deve aver pensato anche la giuria della Berlinale, conferendogli un premio per il contributo artistico che guarda all’ottimo lavoro sulla fotografia.