Dogman recensione film di Luc Besson con Caleb Landry Jones e Jojo T. Gibbs [Anteprima]
I mediocri copiano, il genio ruba… che sia stata pronunciata o meno da Pablo Picasso, questa rimane una delle frasi più discusse della storia, che cela al suo interno gran parte del senso stesso dell’arte.
La capacità di carpire e reinterpretare una rappresentazione artistica può essere considerata, indirettamente, il medesimo metodo con cui un artista seleziona dalla realtà per creare.
Quando Joker di Todd Phillips approdò nelle sale di tutto il mondo, in molti si domandarono quanto del risultato finale si dovesse riconoscere al regista e quanto, invece, agli evidenti riferimenti ai quali la pellicola sembrava rimandare piuttosto esplicitamente.
La recriminazione di un’opprimente influenza scorsesiana caratterizzò gran parte delle opinioni e fu visto come uno sterile tentativo di portare Martin Scorsese nel mondo dei cinecomic.
Ora immaginatevi un prodotto che derivi da un film rispettivamente derivativo ed ecco che otterrete Dogman.
Il nuovo lungometraggio di Luc Besson, difatti, non tenta goffamente di celare un plateale rimando all’approccio filmico di Joker, trovandone, al contrario, una propria interpretazione.
Besson ruba e lo fa anche bene.
Al film manca parte dell’armonia scenica che la pellicola di Todd Phillips manifestava a ogni piè sospinto, ma, sorprendentemente, Besson ottiene qualcosa che neanche a Joker era riuscito.
All’interno di un prodotto audiovisivo sostanzialmente ineccepibile, Phillips commise un errore: la parabola narrativa fin troppo semplificata di Arthur. Il personaggio interpretato da Phoenix fu caratterizzato da un’escalation di soprusi francamente poco credibile, in grado di disinnescare brutalmente il climax di dolore e rabbia che funge da spina dorsale dell’opera.
Il reiterarsi perpetuo di torti e delusioni non permette alla vicenda di ottenere un fecondo contrasto drammaturgico, necessario a coinvolgere lo spettatore, facendo sentire il peso reale di ogni avvenimento negativo. Se dalla prima all’ultima inquadratura del film, il personaggio di Arthur subisce senza sconti, ecco che lo spettatore non potrà aspettarsi altro che l’ennesimo torto.
In Dogman, al contrario, si conquista un fecondo conflitto interno derivante dalla presenza del buio, ma anche di un potente fascio di luce in grado di donare speranza e, di conseguenza, far percepire realmente il dolore quando questa viene disattesa.
Il film, in concorso all’80a Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, racconta l’incredibile storia di Douglas, interpretato da un inarrivabile Caleb Landry Jones. Un ragazzo segnato dalle avversità della vita che scoprirà la sua salvezza nell’affetto incondizionato dei suoi cani.
Dogman è costellato di alcune sporadiche fonti luminose capaci di accompagnare lo spettatore in un continuo saliscendi emotivo. Inoltre sono lievi e piuttosto trascurabili le cadute di stile della messa in scena, che riguardano quasi esclusivamente la gestione del fattore “cani”.
Gli alleati di Doug sono alla base di alcune delle dinamiche più riuscite della pellicola. Tuttavia, alcune sequenze risentono inevitabilmente di piccole ma evidenti forzature, piuttosto trascurabili, ma ugualmente in grado di distorcere l’atmosfera per gli spettatori più esigenti.
In conclusione, Dogman è un prodotto tanto derivativo quanto riuscito, a cui non serve ricercare ostinatamente lo sterile vanto dell’originalità, ma a cui basta reinterpretare con efficacia i presupposti dei riferimenti culturali a cui guarda senza vergogna.