Don’t Worry Darling recensione film di Olivia Wilde con Florence Pugh, Harry Styles, Chris Pine, Olivia Wilde, Gemma Chan, KiKi Layne, Nick Kroll e Kate Berlant
Dopo La rivincita delle sfigate, ecco il secondo film da regista di Olivia Wilde, che sbarca a Venezia 79 con il suo attesissimo Don’t Worry Darling. Ampiamente chiacchierato per via dello sfavillante cast, il lungometraggio con protagonisti Florence Pugh e Harry Styles divide da subito la critica presente al Lido veneziano e fa parlare di sé anche a causa di sterili gossip. In realtà, oltre alla smodata idolatria delle fan di Harry Styles, l’ambiziosa distopia di Don’t Worry Darling ha davvero qualcosa da offrire.
Siamo negli anni cinquanta e Alice e Jack sono due giovani sposini residenti a Victory, idilliaca cittadina degli Stati Uniti. I due ricalcano con inquietante precisione lo stereotipo della famiglia americana di metà novecento: Jack uscirà ogni mattina per provvedere economicamente alla coppia e Alice si occuperà di cucinare e pulire con cura la splendida casa da sogno americano.
Dopo averci presentato il mondo ordinario dei personaggi, la Wilde inizia da subito a suggerire i primi segnali di una realtà conturbante, rimandando immediatamente ad uno dei film più importanti e conosciuti del cinema contemporaneo: The Truman Show. Gli echi del film con protagonista Jim Carrey si faranno più ingombranti minuto dopo minuto, tanto da alimentare un temporaneo confronto tra le due pellicole. È a questo punto che regista e team di scrittura riescono nell’essenziale compito di evitare a Don’t Worry Darling quel pericoloso terreno del raffronto, grazie all’inserimento di elementi inediti che ne rinfrescano il sapore, attualizzandone la rappresentazione filmica.
Se a livello tematico il film riesce a conquistare una sofferta indipendenza editoriale, sul piano prettamente interpretativo il discorso è altrettanto complesso. Nonostante lo scettro emotivo della vicenda sia innegabilmente in mano alla magnifica Florence Pugh, dispiace constatare la sorprendente intercambiabilità della performance di Harry Styles, che non ottiene mai quel magnetismo necessario ad un ruolo di tale importanza. Il discorso cambia sensibilmente analizzando il lavoro svolto da Chris Pine che, in un ruolo affascinante e controverso, esprime con convinzione quel carisma necessario a sorreggere parte dell’impianto drammaturgico. Anche la regia di Olivia Wilde, ad eccezione di qualche vano esercizio di stile poco utile alla narrazione e senza adottare un registro particolarmente eccentrico, si assicura un discreto intrattenimento visivo, convincendo senza stupire.
Il risultato delle singole componenti sopracitate è un dramma ben orchestrato, in cui l’ottimo impianto formale e l’apprezzabile scrittura dei personaggi fungono da piacevole cornice alle stimolanti tematiche espresse.