Don’t Move recensione film di Brian Netto e Adam Schindler con Kelsey Asbille, Finn Wittrock, Moray Treadwell e Daniel Francis [Netflix]
Iris (Kelsey Asbille) si reca in cima alla montagna dalla quale suo figlio Mateo è caduto, pronta a buttarsi nel dirupo per porre fine al dolore che la divora. Viene fermata però da Richard (Finn Wittrock) un uomo che ha subìto un’esperienza simile e che la convince a desistere.
Quando i due scendono dalla montagna, però, Richard rapisce Iris e le inietta un potente sedativo. Prima che lo psicopatico riesca a portarla nel luogo dove la torturerà, Iris riesce a liberarsi, ma il siero le causerà una paralisi totale nel giro di venti minuti: dovrà riuscire a trarsi in salvo prima di allora.
Don’t Move, disponibile su Netflix, si inserisce in quel sottogenere di thriller con tinte horror che mettono il protagonista al centro uno scenario da cui sembra impossibile trarsi in salvo. L’interesse viscerale per questo genere di storie (Cujo, Il gioco di Gerald o, più recentemente, The Black Phone) nasce dalla curiosità verso i tentativi disperati del protagonista per uscire dalla situazione in cui è intrappolato.
Da questo punto di vista, il meccanismo di Don’t Move si inceppa poco dopo la metà della sua durata. L’idea della paralisi crea inizialmente buone situazioni di pericolo e riesce a generare la curiosità dello spettatore. Quando Iris rimane paralizzata, diventa una semplice spettatrice. Da quel momento in poi, le scene si sviluppano seguendo lo stesso schema: la protagonista, bloccata, tenta di attirare l’attenzione di un buon samaritano di turno.
Se si volesse poi caricare il tutto di ulteriori significati, magari pensando alla paralisi di Iris come a una critica della condizione della donna sotto il patriarcato, il film ne uscirebbe ancora peggio, poiché riduce la sua eroina a un oggetto passivo, incapace di difendersi per la maggior parte del tempo.
Ma l’inerzia di Iris non è ciò che danneggia di più il film. I film horror e thriller spesso piegano l’intelligenza dei propri personaggi, facendogli compiere scelte assurde per metterli in situazioni di pericolo e fare andare avanti la trama.
Questo, va riconosciuto, in Don’t Move non succede, o almeno non succede in maniera così plateale. Tuttavia, il livello di sospensione dell’incredulità che i registi Adam Schindler e Brian Netto richiedono agli spettatori in certi momenti rasenta il ridicolo. Si va dall’accettabile richiesta di passare sopra a certe soluzioni irrealistiche all’utilizzare il montaggio per far uscire magicamente la protagonista da situazioni pericolose. La componente di puro intrattenimento della pellicola ne risulta così inevitabilmente danneggiata.
C’è però un’altra caratteristica tipica dei film che intrappolano i protagonisti in questi scenari mortali. Spesso, infatti, la trappola non è altro che una leva per portare alla luce gli aspetti più nascosti del personaggio. L’esplorazione e il superamento dei traumi del protagonista è quindi una componente tanto importante quanto le scene d’azione. È proprio sullo studio dei personaggi che questo film preferisce concentrarsi.
Kelsey Asbille incarna in maniera bilanciata e mai melodrammatica il ruolo di una madre che ha perso ogni ragione di vita e la lotta per la sopravvivenza che deve sostenere le fornisce molte occasioni per brillare.
Finn Wittrock poi riesce a dare umanità a una parte che rischiava di essere l’ennesimo psicopatico che insegue una donna nel bosco. Il suo Richard è un subdolo e affabile manipolatore, capace di convincere in un attimo della sua bontà e in quello successivo di trasformarsi in un perfido assassino. In più Wittrock riesce a conferirgli insicurezze e difficoltà che lo rendono un cattivo capace di rubare ogni scena in cui è presente. Anche a discapito della protagonista.