Dostoevskij recensione serie tv dei Fratelli D’Innocenzo con Filippo Timi, Gabriel Montesi, Carlotta Gamba e Federico Vanni [SKY Original]
Presentata in anteprima al Festival Internazionale del Cinema di Berlino e dopo un breve passaggio in sala sotto forma di film in due parti, arriva su Sky e Now TV la quarta opera dei fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo. Una miniserie in sei episodi che probabilmente meglio si confà al piccolo schermo per via della corposa durata ma che sicuramente mantiene il respiro cinematografico dei loro precedenti lavori e che proprio per questo possiamo senza troppi giri di parole considerare il quarto lungometraggio dei due gemelli.
Dostoevskij è il nome che il poliziotto Enzo Vitello e la sua unità investigativa hanno affibbiato al serial killer a cui stanno dando la caccia, il quale è solito rendersi riconoscibile grazie ad un singolo dettaglio ricorrente lungo la scia delle sue vittime: la presenza di lettere scritte a mano con una certa cura nell’esposizione.
Enzo, interpretato abilmente da Filippo Timi, è dunque il protagonista assoluto della vicenda la quale tuttavia si apre proprio con il suo tentativo di suicidarsi: il desiderio di sparire di Enzo sembrerebbe dover necessariamente aspettare, nel momento in cui i crimini di Dostoevskij lo costringono a mettersi in gioco per un’ultima volta, come se ci fosse ancora un conto in sospeso tra lui e la terra che tanto vuole abbandonare.
Forse non è ancora giunto il momento di dire addio all’unica cosa che di buono lascerebbe al mondo, sua figlia Ambra (interpretata magistralmente da Carlotta Gamba).
Nasce così un rapporto di natura epistolare tra l’assassino e l’investigatore grazie al quale il primo si aprirà sempre di più nei riguardi del secondo, che finirà per fare di Dostoevskij l’unica ossessione in grado di tenerlo in vita.
Gli eventi si susseguono in contesti prettamente rurali, che non verranno mai specificati o identificati, nonostante siano evidentemente ascrivibili all’Italia. Le divise del corpo di polizia appaiono anonime, non particolarmente associabili a quelle Italiane e probabilmente più vicine a quelle di un poliziesco Americano.
La scelta di ambientare la storia in un luogo di fantasia permette ai due autori di prendersi le adeguate libertà narrative senza tuttavia dover rinunciare alla componente terrena e concreta del contesto italico. In altre parole, raccontando di un posto che non esiste, i D’Innocenzo portano lo spettatore a sentirsi paradossalmente più coinvolto, come se le vicende trattate potrebbero effettivamente accadere ad un passo da lui. Il tutto avvolto da dinamiche che fanno il verso alle migliori espressioni del thriller psicologico internazionale, quali lo Zodiac di Fincher, o Memorie di un Assassino di Bong Joon-Ho, ma anche lo stesso Silenzio Degli Innocenti.
In Dostoevskij la componente visiva è fondamentale: tutto è sporco, usato, consunto, malandato, abbandonato e l’attenzione per i dettagli è maniacale, dai costumi, alle scenografie.
La fotografia è livida e l’immagine è sporcata da un rumore che simula la grana di una vecchia pellicola. La messa in scena oltre a soffermarsi spesso sui dettagli, sta molto sui personaggi, con un largo uso di piani sequenza e di lunghi take in grado di cogliere la spontaneità degli attori, come nella lunga scena della colazione.
Di natura visiva è anche il dettaglio che costituisce la svolta nel prosieguo delle indagini, nella scena che rappresenta un plateale omaggio al thriller-horror italiano per eccellenza, Profondo Rosso di Dario Argento.
I D’Innocenzo eseguono un attento approfondimento di tutti i personaggi trattati, dei quali ognuno trova il suo spazio all’interno della compagine narrativa, sia per quanto riguarda quelli che porteranno alla risoluzione delle indagini, sia quelli vicini al protagonista.
Gli stessi caratteri abitano un mondo che annega nella malattia e nell’abbandono, dai quali lo stesso Enzo è totalmente consumato. Man mano che si annida nei meandri della psicologia di Dostoevskij, lo spettatore è portato in maniera praticamente speculare, a fare lo stesso con Enzo e con il suo conflittuale rapporto con la figlia Ambra.
Il tema genitoriale occupa una posizione centrale nella narrazione: Enzo incarna la figura del genitore assente, e l’assenza stessa delle figure genitoriali, con la loro conseguente sostituzione, rappresenta un elemento cruciale per l’identificazione di Dostoevskij.
Per quanto possa apparire sconfinato e non definito il raggio d’azione di Dostoevskij e dei personaggi che gli danno o meno la caccia, in realtà si muovono tutti in un ecosistema chiuso, fatto di segreti, traumi e ferite, paragonabile al “contenitore” nel quale lo stesso serial killer si è formato.
In conclusione, siamo di fronte all’opera più stratificata, completa e ricca dei fratelli D’Innocenzo e probabilmente la loro più riuscita fino a questo momento.