Drive-Away Dolls recensione film di Ethan Coen con Margaret Qualley, Geraldine Viswanathan, Beanie Feldstein, Colman Domingo e Bill Camp
E’ realmente necessario inseguire con convinzione l’aleatorio concetto di originalità nel momento in cui ci si siede alla scrivania per comporre lo script di un prodotto audiovisivo? Probabilmente la prima risposta che vi è venuta in mente è un convinto “no”, poiché nel corso della storia del cinema si sprecano gli esempi di trame apparentemente banali, a cui una narrazione forte ha donato un inaspettato guizzo, in grado di rendere unica anche una storia già sentita.
Ma cosa accade quando ad una trama piuttosto insipida si abbina una modalità di narrazione altrettanto familiare? A quel punto, la qualità del materiale narrativo portato in scena rappresenta l’ultima occasione di redenzione per il prodotto in sé e, nel caso in cui anche questa dovesse deludere, diverrebbe davvero complicato carpire elementi in grado di salvare il film in questione, a meno di prendere in considerazione piacevoli sfumature relative alla propria esperienza individuale, che tuttavia poco ci interessano al fine di produrre una disamina analitica che possa aspirare a divenire tale.
Nel caso del primo film da solista di Ethan Coen (fratello di Joel), la sensazione al termine della proiezione è che nessuno degli elementi sopracitati sia stato raggiunto con efficacia o che, più semplicemente, l’autore statunitense non si sia particolarmente preoccupato di questo aspetto, prediligendo il puro divertimento.
Difatti, ciò che è difficile ignorare in Drive-Away Dolls è quel costante tentativo di non prendersi sul serio, che, se a piccole dosi avrebbe certamente facilitato la fruizione di una vicenda a tratti surreale, se perpetrato per l’interezza della pellicola, rischia semplicemente di trasformare in frivolezza ciò che poteva essere leggerezza. Ethan Coen ci catapulta negli Stati Uniti agli sgoccioli del ventesimo secolo, scegliendo la nascente comunità queer come veicolo più consono alla destrutturazione delle distorte dinamiche di una nazione decisa a modificare un assetto socio-culturale arretrato e violento.
Purtroppo, nonostante le protagoniste Margaret Qualley e Geraldine Viswanathan siano il fulgido esempio di un genuino desiderio di libertà, la pellicola preferisce prendere il tema come un vacuo contenitore, da cui lo spettatore è destinato a rimanere prigioniero, senza la possibilità di uscire per osservare il contesto in cui viene inserito.
Nessuna reale riflessione scaturisce dalle innumerevoli battute sarcastiche contenute nella sceneggiatura, più impegnata a prendersi in giro che a dirci davvero qualcosa sui propri personaggi. A poco serve la presenza di interpreti più o meno noti, tutti capaci e perfettamente in parte, poiché in questo caso a venire meno è la vera e propria ossatura drammaturgica, tragicamente spezzettata tra uno sketch e l’altro.