Drive My Car recensione film di Ryûsuke Hamaguchi con Hidetoshi Nishijima, Masaki Okada, Tôko Miura, Reika Kirishima, Park Yurim e Jin Daeyeon
Ryûsuke Hamaguchi: il nuovo, grande regista giapponese?
Quello di Hamaguchi è sicuramente un nome da memorizzare nel panorama internazionale cinematografico. Giunto al suo quarto film mostra già grande maturità artistica e pieno controllo del linguaggio registico, in cui gli eventi narrativi sono incorniciati da una direzione sobria, misuratissima, sempre formalmente elegante, che rivela a poco a poco la sua presenza.
Ryûsuke Hamaguchi arriva a Cannes nello stesso anno in cui a Berlino ha vinto l’Orso d’Argento e il gran premio della Giuria con il precedente Gūzen to sōzō – Wheel of Fortune and Fantasy – presentato anche al Far East Film Festival 23 e recensito in anteprima da MadMass.it – e anche in Croisette non sembra interessato a riscuotere meramente il suo gettone di presenza. Adattato da una storia breve del celebre scrittore Haruki Murakami (esattamente come il bellissimo Burning – L’amore brucia di Lee Chang-dong), Drive My Car è uno dei film più riusciti e solidi della competizione, anche se non figura tra quelli che seducono immediatamente lo spettatore.
Tra Checkov e Murakami
La narrazione comprende tutti i capisaldi della scrittura del romanziere nipponico: una donna scomparsa e forse mai veramente capita da suo marito, un giovane uomo dalla natura ambivalente e forse pericolosa, un protagonista che macina nel silenzio un amore sofferto per la donna della sua vita, senza dimenticare le profonde influenze culturali europee. In questo caso a farla da padrone è Checkov: il protagonista del film infatti è un regista teatrale che tra preparando una pièce multilingue di Zio Vanja a Hiroshima. La compagnia per cui lavora prevede che non possa guidare la propria automobile da e per gli spazi dove si stanno tenendo le prove, a causa di un precedente incidente. Così, seppur controvoglia, Yusuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima) cede il volante della sua amatissima vettura a una giovane, silenziosa autista di nome Misaki (Tôko Miura).
L’elaborazione del lutto e della propria colpa
Il cinema di Hamaguchi è un’esperienza interessante, perché inizialmente non sembra dimostrare alcuna particolare rifinitura o specificità. Drive My Car è un film molto lungo (179 minuti) con un avvio davvero flemmatico, combinazione che non lo rende la visione più seducente in competizione, soprattutto in un Festival di Cannes ricco di shock value, sessualità esplicita e tanta, tanta volta voglia di osare. L’avvio di questo film (comunque tra le lenzuola) è così sussurrato da sembrare sottotono. Anzi, la prima ora funge quasi da prologo alla storia e ai protagonisti veri e propri, dando l’impressione che dal progetto si sarebbe potuta cavare anche un’ottima miniserie televisiva.
Si tratta però di una brace incandescente di cui non vediamo il lucore sotto l’iniziale cenere. Anche le interpretazioni del cast, inizialmente persino blande, acquistano una forza interiore in crescendo, arrivando a picchi emotivi mai esplosivi, ma di profondità abissale e intensità devastante, che però sublimano in un solo, sentito abbraccio tra la neve.
Così come Misaki, Drive My Car sembra un film molto asciutto e anaffettivo, invece ha una sensibilità sua, che trova poesia e verità in luoghi inaspettati. Su richiesta del protagonista, l’autista lo porta “in un posto che ama” a Hiroshima. Si rivelerà essere l’inceneritore cittadino, dove i rifiuti che vengono scaricati nell’impianto svolazzano e “sembrano un po’ la neve che cade, no?”
Ci vuole un po’ di pazienza per vedere la neve (che poi sarà quella bianchissima del Hokkaido, teatro del picco emotivo del film) e per assistere all’espiazione del senso di lutto e colpa che Yusuke e Misaki hanno seppellito dentro loro stessi. Hamaguchi però in questo senso è inesorabile, si prende il suo tempo ma fa spazio nell’abitacolo, tra i due, ai fantasmi delle persone che non sono più fisicamente nella loro vita ma che tormentano la loro psiche. Anzi: è la consapevolezza dell’impatto che i due hanno avuto sulla loro esistenza e sulla loro scomparsa e la difficoltà a quantificarlo esattamente a rendere queste assenze tangibili, a bloccare i protagonisti sul sedile assegnato, passeggeri della loro stessa vita di cui il ricordo del passato è al volante.
Così come la scrittura di Checkov per Yusuke, il cinema di Hamaguchi si conferma potente per come rivela la verità più profonda dei suoi protagonisti. Drive My Car è un film dall’approccio distaccato, ma non privo di comprensione ed empatia per i suoi protagonisti. Dovesse venire ignorato dal Palmares finale, rimane un indicatore importante di un regista in pieno controllo della sua arte, da seguire in attesa di un’esplosione.