El Jockey recensione film di Luis Ortega con Nahuel Pérez Biscayart, Úrsula Corberó, Daniel Giménez Cacho, Mariana Di Girolamo, Daniel Fanego, Osmar Núñez e Luis Ziembrowski
Che conquistare una piacevole convivenza tra la propria natura biologica e quella spirituale sia un’impresa dalle molteplici complicazioni sembrerebbe essere un assunto capace di generare una profonda spaccatura argomentativa e, solitamente, dove c’è dialettica, vi è anche ampio spazio di manovra per una vivida proposta audiovisiva. Su questo impervio ma eccitante terreno socio-culturale opera la nuova pellicola diretta da Luis Ortega, le cui complesse modalità espressive hanno rapidamente seminato il panico all’interno della sala stampa dell’81esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Gran parte del fascino contenuto nel lungometraggio in questione risiede senza dubbio alcuno nell’eterogeneità dei suoi intenti: El Jockey è infatti un film tanto semplice in termini squisitamente contenutistici, quanto articolato sul piano narrativo-formale, anche e soprattutto a causa di un centellinato surrealismo che, a tratti, potrebbe certamente apparire come un mero espediente visivo, utile più che altro a complicare qualcosa che complicato non è affatto.
È dunque utile, in questo caso più che in altri, slegare con attenzione il piano formale da quello contenutistico, poiché raramente nel corso della pellicola l’uno dipenderà mai realmente dall’altro. Il raffinato surrealismo profilmico adoperato da Ortega potrebbe infatti apparire al tempo stesso stucchevolmente gratuito o piacevolmente arricchente, il che ci costringe a svuotare il lungometraggio da sovrastrutture formali per osservarne la reale natura editoriale.
El Jockey è una storia squisitamente in armonia con alcuni dei temi socio-culturalmente più caldi del decennio in corso, durante il quale la società occidentale sembra domandarsi sempre più frequentemente se vi sia realmente un nesso diretto e ineluttabile tra le proprie caratteristiche genetiche, il contesto di provenienza, le inclinazioni naturali di ognuno di noi e il ruolo che poi scegliamo di interpretare nella frenetica giostra della socialità.
Trovare se stessi o costruire se stessi? Sguazzare ignari nella rassicurante consonanza donata dal contesto di nascita o rischiare fino in fondo, scegliendo una ad una le particelle del proprio essere? In fondo è ciò che Ortega sembrerebbe chiedersi(ci) nei 96 minuti necessari a consumare l’intera pellicola e, in tal senso, le raffinate soluzioni visivo-narrative adottate risultano più un mero vezzo stilistico che un mezzo realmente utile a veicolare con maggior efficacia la propria poetica.