Elemental recensione film Disney Pixar di Peter Sohn con Leah Lewis, Mamoudou Athie, Shila Ommi, Ronnie del Carmen e Wendi McLendon-Covey
Sono passati quasi trent’anni da quando Pixar ha rivoluzionato il mondo dell’animazione e, di conseguenza, del cinema. Trent’anni di un’iconografia specifica, altamente riconoscibile, a tal punto da spingere la stessa Disney ad abbandonare il tanto amato processo d’animazione tradizionale per passare a una nuova estetica tridimensionale altamente influenzata dalle opere dell’implacabile studio di John Lasseter e soci (e inevitabilmente legata alla tecnologia all’avanguardia da loro sviluppata). Non è tanto la Disney ad aver cambiato la Pixar, quanto più che altro il contrario. La rivoluzione Pixar ha influenzato il campo dell’animazione per decenni, spingendo altri studi a focalizzarsi sulla computer grafica al posto della matita, cercando di ritrovare quella quadra stilistica che, tuttavia, nessuno è mai riuscito a eguagliare.
Ma questo sogno lungo un ventennio si è esaurito nel 2018, quando è uscito nelle sale una pellicola inaspettata, che ha totalmente rimescolato le carte in gioco: Spider-Man – Un nuovo universo. Sony Animation, dopo anni di annaspamenti per cercare di distinguersi dallo stile Pixar, ha fatto centro rompendo gli schemi dell’animazione e proponendo un’opera caleidoscopica, che ha condotto la produzione digitale in luoghi mai sperimentati prima (o solo approssimativamente esplorati). Da quel fatidico momento, è evidente come lo stile dello studio sia entrato in crisi. Ce lo dimostra il più recente Red, un film che non sembra spartire nulla con la classica ricerca Pixar, oppure Luca. Siamo nel 2023, è uscito da un paio di settimane il seguito di quella spada che ha lacerato l’industria, Spider-Man – Across the Spider-Verse, ultimo chiodo sulla supremazia della Pixar way, e si accinge a raggiungere gli schermi Elemental, più recente scommessa dello studio di Emeryville e ulteriore conferma che qualcosa sta cambiando all’interno dell’azienda. Vediamo quale nuova strada riesce ad aprire per Pixar in questa recensione.
Elemental, creatura nata dalla mente di Peter Sohn (già regista per Pixar de Il viaggio di Arlo), racconta la storia di una giovane adulta, Ember (in originale Leah Lewis, nella versione italiana Valentina Romani), a un crocevia nella sua vita: rendere fieri i genitori ed ereditare l’attività di famiglia o seguire i propri sogni e vedere dove la portano. Animo inquieto e fumino, a causa di un incidente incontra Wade (Mamoudou Athie, Stefano De Martino), un ragazzo dall’emotività spiccata, sensibile e genuino. Esattamente uno l’opposto dell’altro, non riescono immediatamente ad andare d’accordo, ma delle circostanze impreviste li porteranno dove nessuno si sarebbe immaginato.
Una storia, quella di Elemental, abbastanza tradizionale: una crisi esistenziale, la complessa ricerca dell’amore, le difficoltà a integrarsi in una nuova comunità, il caos di una grande città piena di divergenze che sembra voler inghiottire l’individuo. Il colpo di coda che rende il film di Peter Sohn particolare è un elemento, anzi quattro. I cittadini, infatti, si possono racchiudere in quattro categorie: aria, terra, acqua e fuoco. Questi ultimi, sono i “nuovi arrivati”, che fanno fatica a integrarsi perché troppo “differenti”. Ecco, Ember è una cittadina di Element City di seconda generazione, nata e cresciuta nel quartiere di Firetown, dove il negozio di famiglia è una sorta di istituzione. Wade, invece, è figlio dell’élite della città, un acquatico a cui non è mai mancato nulla, ma non per questo incapace di apprezzare le piccole cose della vita. Il film vive di queste contraddizioni e si fa finestra di un presente ancora non completamente slegato da pregiudizi e dove, anzi, probabilmente si stanno alzando più muri del passato, ognuno alla ricerca di un determinato gruppo nel quale identificarsi e dal quale osservare il mondo che lo circonda.
Questo mondo diviso Peter Sohn lo approccia in modo semplice, andando ad attingere dalle sue esperienze di vita (i genitori sono emigrati negli Stati Uniti dalla Corea negli anni ’70 e hanno aperto un’attività simile a quella del film nel Bronx) e raccontandolo con l’intimità che si addice alla storia di un ristretto gruppo di individui. La regia di Sohn, austera e composta, non si perde in intuizioni stilistiche particolari, cosa che toglie mordente all’esperienza visiva, ma ne restituisce sul piano emotivo, aiutato anche dalla colonna sonora del sempreverde Thomas Newman, maestro nel creare panorami sonori differenti senza perdere la sua impronta peculiare.
Al contrario, sul piano artistico si vede il contraccolpo causato dai nuovi Spider-Man, tanto che non sembra di trovarsi di fronte a un film Pixar. L’estetica che ha contraddistinto lo studio di Emeryville per più di venticinque anni sta pian piano svanendo, sostituita da una ricercatezza stilistica mai sperimentata prima. Lo dimostra il grande studio che è stato fatto per rendere vivi e antropomorfi questi cittadini fatti di elementi naturali, con la conseguente creazione di nuovi strumenti e processi di simulazione per rendere il tutto tangibile e “naturale”. Il risultato può piacere o meno, come anche la direzione presa, ma sicuramente era ora di andare oltre la propria zona di comfort e iniziare a cercare nuovi modi per comunicare la propria visione.