Emily recensione film di Frances O’Connor con Emma Mackey, Alexandra Dowling, Fionn Whitehead, Amelia Gething, Oliver Jackson-Cohen, Adrian Dunbar e Gemma Jones
Misurarsi con le figure del passato che hanno scolpito il nostro presente non è mai stata una sfida per i deboli di cuore. Un nome, un volto, sono in grado di persistere molto più a lungo di una vita. Confrontarsi con essi, dare loro una nuova voce, una che non gli appartiene per natura, è di per sé un atto violento. Giudice, giuria e carnefice sentenziano senza l’accusato al banco degli imputati. Cosa ne è della memoria di un nome se quella stessa memoria può essere rimediata, messa in mostra per un pubblico pagante alla ricerca di un paio d’ore di svago? Cosa ne è del suo retaggio se la sua vita diventa fonte di spettacolo, tascabile, sintetizzata in un centinaio di inquadrature o in un migliaio di battute? Il nostro mondo racconta storie, e noi facciamo di tutto pur di ascoltarle. Crediamo. Ci emozioniamo. Resistiamo alla tentazione di dire “tanto è solo una storia”. Le nostre narrazioni ci definiscono, e non ci sono narrazioni più grandi di quelle di coloro che hanno contribuito a definirci, con le loro parole, con la loro musica, con le loro immagini, con la loro arte.
Così, siamo arrivati a un crocevia, dove la storia di uno diventa quella di molti e dove un nome non è più solo un nome, ma diviene simbolo. E, in un mondo di Einstein, di Picasso, di Wilde e Shelley, emerge, quasi dall’ombra di un lontano ricordo, un nome che è semplicemente un nome: Emily. “Perché”, si chiederà il lettore, “non utilizzare Brönte come titolo di un film sulla vita della sprezzante scrittrice anglosassone”? Presto detto, nostri cari lettori: in quello stesso mondo di spettacolari drammi biografici, dove è l’idea della persona a prevalere sulla persona stessa, Emily (come altri film prima e dopo di questo) nuota controcorrente e cerca la persona prima dell’idea che ci siamo fatti di essa.
La scrittrice Brönte (interpretata da uno degli astri nascenti più luminosi del panorama attoriale contemporaneo, Emma Mackey) non esiste qui; non c’è spazio per lei, tanto che, non appena emerge, il boia ha già calato la scure. Il film sa quale sarà l’inevitabile epilogo di questa triste storia umana: non la morte, ma la vita eterna che le grandi menti acquisiscono, loro malgrado, quando riescono a firmare con il proprio nome le pagine della storia. Questo è chiaro sia a noi spettatori che a Emily, persona qualunque tra persone qualunque, le cui conquiste personali nel suo ristretto mondo, di cui lei è l’unica esploratrice, vengono scandite dai rombi di tuono provenienti da quelle “cime tempestose” all’orizzonte.
La regia di Frances O’Connor è altrettanto attenta a presentarci non una figura, ma una persona; non una donna alla ricerca di emancipazione per comunicare al pubblico odierno la forza e l’impegno di un personaggio femminile che è riuscito a distinguersi in un mondo di uomini, ma un individuo complesso, molto più di un simbolo perché nessun simbolo. Le melodie austere e al contempo energizzanti, stridenti, avventurose di Abel Korzeniowski concedono l’ultimo tocco di inusitata pregnanza: l’esaltazione di una vita qualunque, dove anche una folle e serena corsa sotto la pioggia assieme alle proprie sorelle diventa un evento epico, da grande canzone cavalleresca.
La ricerca del sé si scopre essere ricerca dell’altro da sé; una maschera che ci rende figure immortali, che scolpisce il nostro nome nella pietra, seppellendo al tempo stesso il nostro corpo tre metri sotto terra. Per questo la pellicola si intitola solamente Emily: perché, nel bene e nel male, è la storia di una persona qualunque, prima che prendesse la vanga in mano per scavare la sua stessa fossa al camposanto. Nessun fiore sulla tomba: quelli spettano all’altare della memoria collettiva. E non c’è ricordo per un corpo, ma solo per una sua idealizzazione, almeno finché, un giorno, qualcuno non decida di raccontare, a modo suo, quel corpo più umano dell’umano, in modo un po’ goffo, un po’ stralunato è vero, ma come poteva essere la sua fonte d’ispirazione, finalmente al centro del palcoscenico. Non è comunque la realtà, ma è indubbiamente un racconto che ne va alla ricerca per vie parallele. Le storie alimentano altre storie. E la vita è il loro nettare più pregiato.