Empire of Light recensione film di Sam Mendes con Olivia Colman, Colin Firth, Micheal Ward, Toby Jones, Crystal Clarke, Hannah Onslow e Sara Stewart
Sam Mendes, l’acclamato regista di American Beauty, 1917 e di due capitoli della saga su James Bond, torna al cinema con Empire of Light, nelle sale italiane dal 3 marzo. Forte di un cast che comprende Olivia Colman, Michael Ward, Colin Firth e Toby Jones, il regista britannico si discosta dai toni action – ma pur sempre parecchio autoriali – dei suoi ultimi lavori, sfornando un dramma sentimentale apparentemente atipico.
Riflettere sul cinema col cinema
L’Inghilterra degli anni ’80 è un paese in forte declino economico, particolarmente segnato dal governo conservatore della Iron Lady Margaret Thatcher. Piccola oasi – infelice – è l’Empire, un cinema raffinato e decadente di una cittadina costiera inglese. Vicedirettrice della struttura è Hilary (Olivia Colman), una cinquantenne solitaria e taciturna alle prese con un’esistenza assai grigia. Trascinata da un’insana relazione clandestina con Donald (Colin Forth), il direttore del cinema, Hilary trova nuovi stimoli in Stephen (Michael Ward), un vent’enne afroamericano affascinato dalla magia del cinema e di continuo vessato per il colore della sua pelle. Inizierà così un’amicizia molto profonda tra i due, che li porterà a contrastare insieme pregiudizi e sconforti, ansie per il presente e timori per il futuro.
Il cinema che racconta il cinema; non sono affatto pochi i film che di recente hanno indagato la fisicità salvifica della “fabbrica dei sogni”, quella settima arte che, attraverso un semplicissimo fascio di luce, si rivela sullo schermo gigante di una sala, dischiudendo con prodigiosa naturalezza altri mondi. Si pensi a The Fabelmans e Babylon, due diversi – e ugualmente affascinanti – ritorni ad un passato condizionato dalla magia ora idilliaca ora maledetta del cinema. Con Empire of Light succede qualcosa di diverso: l’evasione in una realtà differente comincia ben prima che le luci si spengano, e che irrompa quello spettrale pulviscolo guidato dall’occhio attento di un proiezionista.
Un Eden dimenticato
Nel film di Mendes, il cinema è soprattutto la calamita di due isolamenti non voluti: quello di Hilary, spenta da una depressione curata con il litio, e quello di Stephen, limitato da un contesto socio-culturale fortemente razzista. Tutto cambia quando le malinconie di queste due anime iniziano ad interagire negli ambienti più nascosti e trascurati dell’Empire. Si potrebbe dire che la sofferenza del suddetto luogo, chiara metafora della forte crisi che attualmente stanno attraversando le sale cinematografiche, attragga a sé i due protagonisti, dando vita a un triangolo tenerissimo e dall’importante potenziale narrativo. Peccato, però, che Empire of Light non lo sfrutti appieno.
Prima di tutto, si consideri la principale nota stonata del film: la sceneggiatura. Scritta dallo stesso Mendes, e di certo condizionata da un passato carico di nostalgia, essa si desidera decisamente ambiziosa: sofferta emancipazione femminile, razzismo subdolo e dilagante, malattia mentale e fascinazione per il cinema sono alcuni dei troppi temi affrontati dal film. Ciò non sarebbe affatto un male se la storia sviscerasse meglio tali tematiche, che invece sono trattate quasi sempre in modo superficiale. Non sembra risentirne troppo il personaggio di Hilary, a cui una superlativa Olivia Colman presta corpo e voce. È quest’ultima, infatti, il vero diamante di Empire of Light, quel fascio di luce che guida l’emotività dello spettatore.
Tanta sostanza e pochi lampi
Con una performance che si potrebbe definire diesel, che inizia in sordina e pian piano aumenta superbamente i giri, l’attrice premio Oscar per La favorita adombra il resto del cast, che pur sembrava promettere bene. E da qui un altro demerito della sceneggiatura: l’aver tratteggiato in modo non sempre adeguato alcuni personaggi, che di certo sarebbero stati un valore aggiunto al film. Ad esempio, non si possono non menzionare quelli interpretati da Colin Firth, ridotto a iniquo e ben poco carismatico boss, e da Toby Jones, la cui bravura avrebbe meritato un più ampio minutaggio. Discorso leggermente diverso per il giovane e bravo co-protagonista Michael Ward, per fortuna risparmiato dalle grinfie di una sceneggiatura a conti fatti pigra.
A una scrittura non proprio eccelsa si lega una regia senza particolari idee, molto distante da quella che tanto ha contraddistinto le opere più meritevoli di Mendes. Unico guizzo, la scena di quando Hilary, incoraggiata da Stephen, sfrutta per la prima volta il più grande vantaggio del suo lavoro: sedersi nella sala principale dell’Empire e godersi un film, nello specifico Oltre il giardino, il capolavoro di Hal Ashby con Peter Sellers. Soltanto qui, l’illusione del cinema congela i patemi della donna, donandole un fotogramma alla volta una speranza che considerava da tempo persa. Infine, da menzionare la splendida fotografia del maestro Roger Deakins, capace sia di accentuare i mutevoli stati d’animo dei personaggi sia di restituire con grazia il “colore” di un periodo storico complesso.