Fantastic Machine recensione documentario di Axel Danielson e Maximilien Van Aertryck
di Giovanni Pesaresi
In questa splendida opera firmata da Axel Danielson e Maximilien Van Aertryck l’idea è quella di raccontare la storia della macchina da presa e del video focalizzandosi sul rapporto tra l’uomo e il video.
Si parte dalla prima fotografia fino ai quarantacinque miliardi di dispositivi in grado di riprendere stimati sul pianeta nel 2022, mettendo sempre l’uomo al centro della riflessione.
Una ricerca complessa, condensata in meno di novanta minuti di pellicola, che porta a chiedersi come sia stato possibile che dalla scoperta dei fratelli Lumiere, siamo giunti a un mondo dove il video è entrato a fare parte di ogni aspetto della nostra esistenza. Soprattutto come sia stato possibile che questo mezzo con così grandi potenzialità abbia dato vita a un mondo di intrattenimento superficiale nel migliore dei casi e strumento di alienazione e di influenza politica nel peggiore.
Non è un caso che tra i produttori del film c’è anche il due volte Palma d’oro Ruben Östlund, che ha provocato reazioni chiedendosi se non sia il caso di consentite l’utilizzo di una telecamera, in quanto strumento potenzialmente pericoloso, solo alle persone dotate di apposita licenza.
Il documentario, di produzione svedese e danese, traccia dunque la storia dell’immagine in movimento costruendo una linea temporale sulla quale i registi si muovono con una libertà di montaggio pressoché totale. Ciò conferisce al film un ritmo incalzante e tiene sempre alta l’attenzione dello spettatore.
L’approccio dei due autori, pur in un certo senso antropologico, non è mai accademico, e dunque come in una rapidissima macchina del tempo si passa da Melies, all’Isis, fino ai Tik Tok di oggi, per poi invertire la rotta tornando alla velocità della luce a Leni Riefenstahl.
Tutto questo avviene con il supporto di colonna sonora eccessiva e quasi ridondante, come a voler dare una dimostrazione empirica dei poteri speciali del video o a voler mettere a nudo la relatività del tempo e dello spazio, rispetto all’onnipresenza e all’onnipotenza della macchina fantastica che è in grado di fissarli.
La formula anarchica e anti-strutturale dell’opera funziona: il film non annoia mai, ha un raggio d’ampiezza sconfinato e fornisce una quantità immensa di spunti.
Una delle ragioni principali dell’interesse è data soprattutto dalla riflessione sulla televisione, sulla sua influenza sull’individuo e sulla società e su come oggi l’evoluzione dell’intrattenimento televisivo in quello dei social media (e non solo) possa amplificare questo ascendente.
Nel 2015 nel suo splendido film di fantascienza Ex Machina Alex Garland – sulla scia di tutta una precisa narrativa sci-fi distopica (alla Philip K. Dick, per intenderci) – suggeriva un’inquietante analogia tra lo sviluppo del campo informatico-cibernetico e quello dell’energia nucleare.
In Fantastic machine questa analogia viene riproposta ma stavolta rispetto alla televisione e ai suoi successivi derivati. Da Videodrome a The Ring l’orrore della tv e del video, inteso nel senso più esteso del termine, è stato raccontato in ogni salsa.
Il tema della televisione privata e di come questa abbia rappresentato direttamente o indirettamente un duro colpo per la cultura, in particolare per la settima arte, è un argomento che ci riguarda da vicino. Se avessero spostato l’obiettivo della loro lente d’ingrandimento sul nostro paese, Danielson e Van Aertryck avrebbero trovato molto materiale interessante per il loro documentario.
E se da un lato è vero che oggi le persone guardano meno il piccolo schermo è altrettanto sempre più evidente che la nuova televisione sono i social network e le piattaforme streaming. Strumenti capaci di mischiare subdolamente intrattenimento e informazione, appiattendo inevitabilmente entrambi. Questi rappresentano una televisione più grande, più accessibile e molto più affascinante.
Tematiche che forse il film tratta con troppa ironia, che seppur gradevolmente scandinava, forse limita, o quantomeno rende meno immediato, l’effetto presa-di-coscienza sullo spettatore.
Il tema centrale del documentario è il cinema che, tra piattaforme streaming e fenomeni social, rischia di vedere definitivamente limitato il peso della qualità artistica, a fronte della crescente richiesta di intrattenimento che sempre più spesso trascura la qualità artistica. Ma fino a dove potranno spingersi piattaforme streaming in questo meticoloso e progressivo appiattimento della qualità cinematografica volto a uniformare i gusti del pubblico e portare vantaggi economici alle aziende stesse?
Ed è questo a rappresentare, simbolicamente, la drammatica non-risposta alla domanda iniziale: come diavolo siamo arrivati dall’Arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat a Tik Tok? Poveri fratelli Lumiere.