Fast Fashion: The Real Price of Low-Cost Fashion recensione film documentario di Gilles Bovon e Edouard Perrin al Terra di Tutti Film Festival
“Fast Fashion è il commercio di vestiti molto economici, che si presuppone tu sia preparato a rimpiazzare rapidamente”. È questa la definizione della moda usa-e-getta fornita da Nikolay Anguelov, professore di economia della University of Massachusetts. Ed è questo il titolo della sorprendente inchiesta condotta dai francesi Gilles Bovon ed Edouard Perrin sul mondo dell’abbigliamento low cost.
Il racconto che ne scaturisce rappresenta un vero e proprio j’accuse nei confronti dei colossi del settore. Una denuncia che proietta l’universo accattivante della moda a basso costo all’interno di un cono d’ombra che ne mostra il volto nascosto.
Le accuse sono molteplici, a partire da quella di plagio: innumerevoli squadre di investigatori vengono sguinzagliate dappertutto alla ricerca del capo d’abbigliamento da copiare. Una volta individuato l’obiettivo, team di designer e avvocati ne studiano l’adattamento in maniera da evitare denunce da parte dei veri ideatori. Il successo dell’operazione è spesso assicurato, sebbene alcune volte le azioni legali promosse dai proprietari defraudati si concludano con una condanna per i contraffattori.
A tali addebiti si assommano quelli di sfruttamento lavorativo: a Leicester, nel Regno Unito, gli operai dei laboratori sartoriali che confezionano abiti per alcuni big del low-cost accettano paghe inferiori al minimo salariale con turni di lavoro massacranti. È un meccanismo di sfruttamento ulteriormente alimentato dalla pratica dei subappalti che, abbassando i ricavi dalle commesse, deprime ulteriormente i diritti dei lavoratori.
“La fast fashion ha generato una crescente informalità, ma anche una crescente precarietà” – ci spiega Nikolaus Hammer, ricercatore specialista in lavoro e sviluppo della University of Leicester – “I lavoratori sono in un sistema informale da zero ore e quindi non hanno un vero contratto.”
Come se ciò non bastasse, l’enorme quantità di indumenti immessi sul mercato comporta grandi rischi ambientali. Ogni anno, infatti, ne vengono vendute quasi 56 milioni di tonnellate. In Europa, la quantità acquistata è quasi raddoppiata dal 2000, mentre alcuni esperti prevedono un ulteriore incremento del 60% nei prossimi dieci anni. Considerando che si tratta di prodotti dal degrado veloce, il rischio di trovarsi dinanzi a montagne di rifiuti tessili sempre più alte è drammaticamente concreto.
D’altronde, l’industria tessile – ci ricordano i due autori – è la più inquinante al mondo dopo quella del petrolio: “Per una tonnellata di tessuto” – specifica il già citato Anguelov – “vengono inquinate 2000 tonnellate d’acqua. La proporzione è 1 a 2000.”
Si tratta di un dato sconcertante che ha indotto molti produttori ad una riorganizzazione ecocompatibile. Una strategia di Greenwashing, questa, che, in alcuni casi, ha destato non poche perplessità, dal momento che alcuni tessuti considerati green, in realtà, richiedono trattamenti chimici ritenuti altamente pericolosi per i lavoratori e fortemente inquinanti per l’ambiente.
Ed è proprio per tale ragione che alcuni piccoli produttori hanno preferito puntare ad un ritorno alla slow fashion confezionando abiti di alta qualità ampiamente riutilizzabili e facilmente rivendibili.
Una scelta etica, questa, che, seppur lodevole, potrebbe non costituire affatto un punto di svolta, dal momento che la fast fashion – anche a detta del professor Anguelov – non potrà mai essere fermata del tutto.
La fast fashion, infatti, – sembrano suggerire Bovon e Perrin – lungi dal rappresentare una mera forma di distribuzione di prodotti tessili, costituisce una delle tante declinazioni di un più generale modo di pensare.
Ed è in tal senso che Fast Fashion: The Real Price of Low-Cost Fashion – presentato al Terra di Tutti Film Festival 2021 di Bologna – non si accontenta d’essere un’inchiesta sul mondo della moda a costi accessibili, ma vuol rappresentare anche una riflessione generale sui cambiamenti sociali e antropologici provocati dalle dinamiche consumistiche ormai diffuse in gran parte del mondo. Dinamiche che, affinate da studi scientifici diretti ad influenzare i processi decisionali d’acquisto, riducono la capacità di individuazione dei reali bisogni. E che, innescando un meccanismo governato da compulsione e omologazione, tendono a svilire l’essere umano – complesso di emozioni, passioni e sentimenti – in puro e semplice consumatore.