Festen – Festa in famiglia recensione film di Thomas Vinterberg con Ulrich Thomsen, Henning Moritzen, Thomas Bo Larsen, Paprika Steen e Trine Dyrholm
Metti un’atmosfera nordica e surreale, una recitazione spontanea ma allo stesso tempo marcatamente teatrale, riprese traballanti tale creare un senso di stordimento che ti coinvolge. Il risultato di questo particolare mix è Festen, prima creatura del Dogma 95, il movimento cinematografico fondato dai registi danesi Lars von Trier e Thomas Vinterberg che hanno dato vita, sul finire del secondo millennio, a un vero e proprio decalogo artistico al quale hanno aderito molti cineasti europei e non solo.
Il manifesto del collettivo, redatto a quattro mani proprio da von Trier e Vinterberg, si basa sul cosiddetto “Voto di castità”, riassunto in un decalogo di regole ferree a cui dovevano attenersi i registi che ne facevano parte.
L’obiettivo finale era l’azzeramento dell’uso degli effetti speciali e il ritorno ad un cinema low budget che rifiutava qualsiasi espediente effimero e scenografico. Secondo i registi danesi le riprese dovevano essere fatte sul luogo e il set non doveva essere costruito ad arte, proprio come la musica che, se inserita nel contesto era accettata, ma era vietata in quanto colonna sonora di accompagnamento. Inoltre i registi, che tenevano la camera a mano per rendere più autentiche le riprese, non potevano avvalersi né di luci speciali, filtri o trucchi visivi, né tantomeno di salti temporali e geografici nella narrazione. Insomma più che film i prodotti Dogma 95 erano veri e propri esercizi di stile che stimolavano i filmmaker e spingevano la loro creatività oltre i limiti artistici.
Festen, oltre a essere il primo film ad essere realizzato seguendo il “Voto di castità”, è sicuramente uno dei lungometraggi più rappresentativi della corrente che puntava alla purificazione cinematografica. Il regista de La comune (2016) invece di perdersi tra le rigide regole dogmatiche che avrebbero rischiato di rendere asettica e arida la pellicola, ha creato un capolavoro stilistico perfettamente eseguito, puro e privo di fronzoli ma diretto e spiazzante come il fulcro della vicenda intorno a cui gira tutta la trama. Sembra quasi che, eliminati tutti gli elementi marcatamente artefatti, Vinterberg voglia conferire autenticità alla pellicola solo attraverso il racconto della triste storia che vede protagonista una ricca e borghese famiglia danese.
Da subito ci si immerge in un’atmosfera paradossale e nevrotica in cui ogni personaggio manifesta immediatamente la propria personalità e il ruolo che ricopre all’interno della famiglia. C’è Christian (Ulrich Thomsen), forse il vero protagonista, il primogenito calmo ma coraggioso, Helene (Paprika Steen), la figlia di mezzo svampita e ironica, e Michael (Thomas Bo Larsen), il figlio minore collerico e emarginato.
E poi c’è Helge (Henning Moritzen), il capostipite della famiglia Klingenfeld, l’artefice della grande riunione organizzata nella sua lussuosa villa per festeggiare il suo 60esimo compleanno al cospetto non solo della sua prole ma anche di molti parenti e amici.
Anche se tutti si sforzano di mostrare normalità e familiarità, è percepibile da subito un disagio e una tensione latenti, che vengono rivelati ben presto durante la scena fondamentale attorno alla quale gira tutto il film, il brindisi di Christian. Quasi come se l’avesse aspettata da tutta la vita, il primogenito approfitta di questa preziosa occasione in cui si trova di fronte a molti conoscenti e familiari per svelare un agghiacciante segreto che grava non solo sul suo passato ma anche su quello di sua sorella Linda, morta suicida l’anno prima. Da questo preciso momento tutto cambia e l’apparente aria di festa e di ilarità viene sostituita da un clima di sdegno e ostilità che si riversa anche sull’ambientazione, che da sfarzosa ed elegante si trasforma in cupa e hitchcockiana.
Vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes, Festen è l’emblema di un progetto durato dieci anni che cerca, con non poche difficoltà, di andare in controtendenza rispetto alla “cosmetizzazione” del cinema contemporaneo che preferisce di gran lunga l’uso delle illusioni per comunicare le emozioni.
Arianna