Figli del sole recensione film di Majid Majidi con Ali Nasirian, Javad Ezzati, Tannaz Tabatabaie, Rouhollah Zamani, Mahdi Mousavi e Shamila Shirzad
Presentato in Concorso alla 77esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Figli del sole approda nelle sale italiane esattamente un anno dopo, in concomitanza con la nuova edizione della kermesse (che si è appena aperta con Madres paralelas di Pedro Almodóvar). Da sempre Venezia ha mostrato una grande attenzione al cinema iraniano, più di molti altri specchio di una società in continua tensione tra tradizione ed evoluzione.
Il film di Majid Majidi, autore in passato de I ragazzi del paradiso, primo candidato iraniano agli Oscar, si apre con una dedica ai 152 milioni di bambini costretti a lavorare per sostenere le proprie famiglie. L’infanzia negata è il centro di un’opera che si muove nel sottobosco criminale di Teheran e si aggrappa alle (dis)avventure di un gruppo di amici: Ali, Mamad, Reda e Abofazl. Costretti a sbarcare il lunario tra lavoretti di meccanica mal pagati e piccoli crimini, i quattro intravedono una possibilità di riscatto in un incarico stravagante: trovare un tesoro nascosto in un’area accessibile solo attraverso la Scuola del sole.
Figli del sole unisce i codici del cinema d’avventura a una profonda radicazione nel contesto sociale in cui è ambientato, presentato senza edulcorazioni o false prospettive illusorie. La ricerca del tesoro, che passa dallo scavare continuamente, è metaforicamente quel processo di emancipazione necessario a far diventare i più giovani gli artefici del nostro destino. Non a caso, è proprio la scuola il luogo eletto, l’unica speranza in una realtà in cui i genitori sono assenti e le (altre) istituzioni sembrano indifferenti al grido di dolore di chi non ha, e non avrà mai, la possibilità di diventare qualcuno.
Majid Majidi si schiera apertamente dalla parte dei suoi protagonisti, non li giudica mai, li racconta nelle loro contraddizioni e, pur perdendo di vista progressivamente alcuni di questi, riesce a descriverne il percorso doloroso e la difficoltà di stare al mondo. Se il suo film mantiene una coerenza di fondo a livello di messaggio, a vacillare in alcuni momenti è la capacità della scrittura di entrare in profondità, di oltrepassare quella barriera che ogni personaggio sembra porre, soprattutto quelli secondari.
L’introduzione riesce a catturare l’attenzione; la parte centrale nel complesso tiene, anche se le figure adulte sono troppo semplificate; nell’avviarsi al finale, invece, Figli del sole perde gradualmente di incisività, dimenticandosi per strada alcune interessanti evoluzioni e concentrandosi ostinatamente sul racconto centrale, che ha però esaurito molte delle sue sfumature. Un po’ come in Cafarnao di Nadine Labaki, film con il quale condivide lo stesso sguardo sull’infanzia e qualche ruffianeria di troppo, l’eccessivo sentimentalismo finisce col caricare il racconto di un peso emotivo che sembra programmatico. I momenti alti sono infatti quelli che si smarcano dalle didascalie, che descrivono, anche solo parzialmente, le psicologie e le mancanze di una generazione che ha imparato a fare a meno dell’affetto altrui.
Guardare l’infanzia è un esercizio complesso e pieno di trappole. Alcune intuizioni di Majid Majidi sono meritevoli d’attenzione, in particolare la scelta di giovanissimi (e talentuosi) attori con cui è molto facile empatizzare. Il film cade però anche in una serie di inciampi che sono dovuti a una costruzione narrativa non sempre attenta all’evoluzione dei personaggi. E nemmeno una chiusura potentemente metaforica riesce a dare quel senso di compiutezza che ci si attende da un’opera passata in Concorso all’interno di un’importante kermesse internazionale di cinema.