Fiore Mio recensione docufilm scritto, diretto e interpretato da Paolo Cognetti
Dopo il successo del romanzo Le otto montagne e il trionfo cinematografico del suo adattamento premiato a Cannes 2022, Paolo Cognetti debutta come regista con Fiore mio, un documentario profondamente personale dedicato al Monte Rosa.
Presentato in anteprima mondiale come evento di preapertura del Festival di Locarno, il film si presenta come un’opera che intreccia la dimensione intima dello scrittore con una riflessione più ampia sull’equilibrio fragile tra uomo e natura.
Il documentario prende avvio da un evento emblematico: la siccità dell’estate 2022, che prosciugò la sorgente idrica della casa di Cognetti a Estoul, a 1.700 metri di altitudine. Questo episodio diventa il pretesto per esplorare l’effimera permanenza di luoghi che un tempo apparivano immutabili, come i ghiacciai del Monte Rosa, ormai minacciati dai cambiamenti climatici.
Con il fedele cane Laki e il direttore della fotografia Ruben Impens al suo fianco, Cognetti intraprende un viaggio che lo conduce attraverso rifugi d’alta quota e incontri con persone che incarnano l’anima della montagna. Tra queste spiccano figure come Remigio Vicquery, custode della memoria della Valle d’Ayas e Sete Tamang, un ex sherpa tibetano che ha trovato sulle Alpi un rifugio dalla propria storia. Ogni incontro arricchisce il film di prospettive uniche, componendo un ritratto collettivo della montagna come spazio di resilienza, isolamento e profonda connessione spirituale con la natura.
Dal punto di vista visivo, Fiore mio è un’opera straordinaria. Le riprese di Ruben Impens trasformano i paesaggi alpini in protagonisti silenziosi, la cui imponenza sovrasta l’uomo e invita a una riflessione esistenziale. La regia di Cognetti, improntata a un minimalismo contemplativo, si concentra su lunghe inquadrature statiche e camminate solitarie, in cui il regista si riduce a una figura minuscola all’interno dell’immensità naturale. Questa scelta stilistica, se da un lato esalta il carattere maestoso e silente della montagna, dall’altro rischia di allontanare uno spettatore meno abituato al ritmo lento della vita alpina.
La colonna sonora firmata da Vasco Brondi, seppur evocativa in alcuni passaggi, a tratti sembra sovrapporsi inutilmente alla sobrietà visiva del film, spezzandone l’equilibrio meditativo. La discrepanza tra immagini e suoni evidenzia una tensione irrisolta tra l’introspezione dell’autore e il desiderio di rendere il racconto più accessibile a un pubblico ampio.
Il cuore pulsante del documentario risiede nei racconti delle persone che abitano il Monte Rosa. È in queste storie, intime e universali, che il film raggiunge il suo apice, offrendo uno spaccato autentico della vita montana. Tuttavia, Fiore mio fatica a trasmettere fino in fondo la dimensione spirituale che vorrebbe evocare, lasciando spesso una sensazione di distanza emotiva.
Fiore mio è un’opera pensata per chi sente la montagna come rifugio, sfida o luogo di riflessione. Cognetti dimostra una sensibilità visiva notevole, ma la narrazione rimane sospesa tra introspezione personale e comunicazione collettiva. Nonostante alcune imperfezioni – un ritmo narrativo a tratti eccessivamente dilatato e scelte musicali discutibili – il film riesce a emergere come un’ode sincera e ipnotica a un paesaggio in pericolo, minacciato tanto dalla modernità quanto dai cambiamenti climatici.