Freaks Out recensione film di Gabriele Mainetti con Claudio Santamaria, Aurora Giovinazzo, Pietro Castellitto, Giancarlo Martini e Giorgio Tirabassi
Freaks Out di Gabriele Mainetti: un circo delle ambizioni non riuscito fino in fondo
In una Roma sconvolta dalle truppe naziste, il circo di Israel (Giorgio Tirabassi) viene distrutto e i suoi componenti dispersi: sono Fulvio, l’uomo lupo (Claudio Santamaria), Matilde, capace di creare elettricità (Aurora Giovinazzo), Cencio che dialoga con gli insetti (Pietro Castellitto) e Mario il magnete umano (Giancarlo Martini).
Mentre cercano di capire cosa fare, un folle gerarca nazista che vede il futuro è convinto che quattro super esseri sapranno salvare il Reich dalla sconfitta: inizia allora una mortale ricerca dei suoi eroi.
La pandemia ha completamente stravolto il sistema cinema, dalla produzione alla distribuzione: di conseguenza, tantissimi sono stati i film rimandati per l’uscita, tra cui questo Freaks Out di Gabriele Mainetti.
Attesissimo al varco da fan, pubblico e critica, il film è stato rinviato più volte, e la presenza all’interno della selezione ufficiale di Venezia è un segnale significativo della voglia di ripartenza prima di tutto, ma anche della volontà di spingere il cinema italiano (e non) in sala con la miglior promozione possibile.
Certo non è stato forse molto conveniente inserire l’opera seconda dell’autore di Lo chiamavano Jeeg Robot in concorso, affiancandola a film giganti come Qui rido io o È stata la mano di Dio: e non tanto per una differenza autoriale – è fortunatamente superata quella frangia della critica che vuole un cinema di serie A e uno di serie B -, quanto per un effettivo confronto qualitativo.
Freaks Out, va detto subito, è un film enorme. Nelle intenzioni, nei risultati, nello svolgimento, nei significati e negli obiettivi. Ma è soprattutto, e purtroppo, un film fin troppo ambizioso. Spingendosi un po’ nell’etimo del termine (che non fa mai male per recuperare un senso critico), ambire viene dal latino amb-ire, andare intorno, e riporta ai candidati al senato romano che andavano il giro sollecitando il voto. L’etimologia è portentosa e vasta, e torna utile per approfondire il senso di Freaks Out rapportato al suo risultato: l’ambizione è l’aspirazione al raggiungimento di qualcosa attuata maneggiandoci intorno, ci si arrampica per muri e scale secondarie, si entra dal retro. Insomma, un caso in cui il fine giustifica i mezzi, ignorando però che il mezzo è il fine.
La lavorazione di questo film è stata travagliata e lunga, frastagliata e laboriosa: e l’ambizione propria di Gabriele, per sue stesse parole, era quella di ambientare un film che fosse insieme un racconto d’avventura, un romanzo di formazione e una riflessione sulla diversità, sullo sfondo della pagina più cupa del Novecento.
Troppa carne al fuoco? È questo il problema.
Quello che solitamente si riscontra nelle opere prime dei registi esordienti, che per la troppa voglia di mostrare inseriscono troppo nel primo film, in Mainetti diventa smania di confermare più che far vedere.
L’incredibile e forse inaspettato successo di Lo chiamavano Jeeg Robot ha fatto sì che si puntassero sul bravo regista più attenzioni e più aspettative del dovuto: senza dire che il film in sé è stato più volte citato come il primo esempio di cinecomic all’italiana – dimenticando tanti e tante altre esperienze, non ultime le diverse prove di Gabriele Salvatores (da Nirvana a Il ragazzo invisibile), ma la lista è ben più lunga, risalendo fino a Mario Bava e a Sturmtruppen.
Oltretutto, stona non poco l’utilizzo che a volte viene fatto del genere: l’immaginario fumettistico, ben presente in quello artistico di Mainetti, sembra a tratti serva per coprire vistose falle di sceneggiatura. Perché qualsiasi fumetto – quantomeno, qualsiasi buon fumetto – per quanto basato su avventure irrealistiche (qui siamo in piena zona X-Men, chiaro riferimento metatestuale e di significato), ha e deve avere una sua coerenza interna, cosa che manca totalmente in diverse sequenze.
La sceneggiatura dello stesso Mainetti (che ha firmato anche la produzione e le musiche, giusto per rimanere in tema di bulimie artistiche) sembra allora si sia gonfiata a dismisura, partendo da un’intuizione felicissima, quella dei Freaks in salsa superomistica. Arrivando però a comprendere fin troppo, dai rapporti interpersonali al nazismo, dai partigiani alla metafora neanche tanto velata sulla diversità, dall’accettazione di se stessi ai veri e propri film supereroistici hollywoodiani, senza farsi mancare neanche piccole strizzate d’occhio al cinema italiano che fu (La ciociara su tutti).
Insomma un calderone dove non tutti gli ingredienti sembrano coesistere bene, e soprattutto non sanno amalgamarsi, con il risultato di un film profondamente discontinuo.
Perché l’incipit è affascinante, come l’istantaneo alternare dei toni: dal circo alla guerra, con in mezzo i Freaks protagonisti. E sembra tutto funzionare bene, finché Claudio Santamaria, Giorgio Tirabassi, Aurora Giovinazzo e Pietro Castellitto sono in scena.
Poi però la trama di Freaks Out prende il sopravvento, le vicende si aggrovigliano ed entrano in gioco le sottotrame: finché già a metà film si capisce che qualcosa si è rotto. Iniziando un’alternanza sfiancante di scene: riuscitissime quelle con i protagonisti al centro, un po’ meno la deriva nazista, ancora meno quella partigiana (pur con uno strepitoso Max Mazzotta).
Opera fluviale che avrebbe avuto bisogno di vistosi tagli specie sul finale, ha dalla sua un comparto produttivo non indifferente e il coraggio di Mainetti di osare: e per quanto si possa gioire di un’opera così piena di grandeur ma anche piena di sé, si arriva al finale frastornati e stremati, incerti se si è assistito ad un film di svolta o al risultato di una malcelata arroganza.