Gangster n° 1 recensione film scritto da Johnny Ferguson e diretto da Paul McGuigan con Malcolm McDowell, Paul Bettany e David Thewlis
Gangster n° 1 è l’opera seconda dello scozzese Paul McGuigan, passato all’onore delle cronache per il notevole Slevin (2006) con Bruce Willis e Ben Kingsley. Malgrado le diverse fiammate filmiche e l’indubbio talento dimostrato in molti suoi lavori, McGuigan è ancor oggi un regista che fa fatica a emergere dall’anonimato, e prendendo visione di questo bel noir all’inglese del 2000 la constatazione lascia molto l’amaro in bocca. Certo, si potrebbe obiettare sull’efficacia di pellicole come Push (2009) o Victor – La storia segreta del dott. Frankenstein (2015), ma Gangster n° 1 è una creatura ben diversa.
Come nei migliori esempi del filone anche questo film narra la voracità alienante e distruttiva delle ambizioni criminali, e lo fa con uno sguardo post-moderno nascosto da qualche parte tra Martin Scorsese (Quei bravi ragazzi), l’ironia di Guy Ritchie (Snatch), le venature pulp di Quentin Tarantino (Le iene) e l’opaca claustrofobia di Stanley Kubrick (Arancia meccanica). Gli ammiccamenti a questi maestri vengono remixati con uno stile personalissimo, pirotecnico nel montaggio, spigliato nel ritmo, velenoso come una barzelletta su un politico corrotto, durissimo da guardare nelle sue feroci esplosioni di violenza.
Gangster n° 1: sinossi
1999. Mentre assiste a un incontro di boxe durante un fastoso banchetto, il Gangster (Malcolm McDowell) viene a scoprire che il suo ex boss Freddie Mays (David Thewlis) sta per uscire di prigione dopo aver scontato una pena di trent’anni. La sarcastica voce narrante del protagonista lo porta a ripercorrere il tempo sino agli anni della gioventù, segnata da intrighi e morte violenta.
1968. Il ventiquattrenne Gangster (Paul Bettany) è uno dei giovani scagnozzi che vivono nel mito di Mays, ai tempi il più grosso e temuto capofamiglia di Londra. L’ammirazione per il boss muta lentamente in invidia e alla fine in desiderio di scalzarlo dal trono; il pretesto di una guerra tra bande sembra offrirgli l’occasione di ascendere al successo.
Un affresco gangsteristico di lusso
Il fuoco di Gangster n° 1 viene fomentato da un cast straordinario, di quelli che difficilmente tradiscono le aspettative. La leggenda vivente Malcolm McDowell (l’Alexander De Large di kubrickiana memoria, ma anche Caligola per Tinto Brass) sguazza come solo lui sa fare nei panni di un individuo repellente (certamente accattivante ma lontanissimo dalla glorificazione), mentre il folgorante Paul Bettany (WandaVision) ne rappresenta perfettamente la giovinezza; David Thewlis (Sto pensando di finirla qui) conferma le sue qualità di caratterista di lusso, Saffron Burrows (Troy) conferisce spessore a una figura femminile ben più complessa della semplice “donna del boss”. Naturalmente, le ovvie prove attoriali non solo l’unico motivo di esistere del film, pur costituendone la colonna portante.
L’ottimo sceneggiatore Johnny Ferguson percorre un intreccio che sa abbastanza di già visto, ma il suo principale merito è smussare la banalità con un’attenzione maniacale per la psicologia dei personaggi, spesso imprevedibili ma sempre coerenti con il percorso tracciato. L’elemento dialogico, con le sue gradevoli virate tarantiniane, è un altro punto fermo dell’opera, supportato dal solidissimo mestiere di McGuigan. La sua regia è estremamente composta ma al contempo movimentata, tallona gli attori per cogliere microespressioni o enfatizzarne le emozioni, sa come rendere tesa e impattante l’azione.
Già la scena iniziale offre una perfetta fotografia dei trent’anni di storia criminale messi in scena dalla troupe di McGuigan, ma tutto il film dispensa meticolosità nei dettagli, dalla filologica ricostruzione di scenografie e abiti d’epoca alla suggestiva scelta dei brani di repertorio. L’eccellenza stilistica acuisce la sensazione di disagio che lo spettatore prova nei confronti delle vicende a cui assiste, soprattutto perché lo splatter è ridotto al minimo e la violenza è perlopiù psicologica. E anche se questa epopea sembra non avere nulla di interessante da aggiungere a un filone trattato in più o meno tutte le salse, lo spettacolo è una gioia per tutti gli appassionati del genere e si lascia ricordare grazie alle sue mille qualità. Non un capolavoro, ma un film strepitoso da riscoprire.