Gemini Man recensione del film di Ang Lee con Will Smith, Mary Elizabeth Winstead, Clive Owen, Benedict Wong, Theodora Miranne, Douglas Hodge e Ralph Brown
Henry Brogen è un killer del governo che, dopo lunghi anni di servizio, decide di ritirarsi a vita privata, abbandonando missioni ed intrighi politici per godersi la meritata pensione. Tuttavia non sarà facile lasciarsi alle spalle gli oscuri segreti del sistema, dal momento che verrà inseguito da un giovane e misterioso agente (Junior), un suo clone di quasi 30 anni più giovane che sembra essere in grado di prevedere ogni sua mossa. Brogen, quando scopre la verità sul suo inseguitore, decide di ingaggiare una lotta senza quartiere contro il sistema corrotto che ha creato il suo doppio, una losca istituzione guidata dal suo ex capo Clay Varris (Clive Owen).
Will Smith qui svolge un doppio ruolo: interpreta sia una esperta spia che il giovane clone di sé stesso. Smith ringiovanito digitalmente è, in poche parole, un “prodigio tecnico” che, oltre alle potenti sequenze d’azione che il film racchiude, rende Gemini Man un‘esperienza visiva da godere assolutamente in 3D.
Ang Lee con questo film ci prospetta una complicata premessa futuristica nel cinema: un attore e il suo clone. Considerando che l’abitudine è sempre stata quella di utilizzare immagini generate al computer per creare la versione giovane di un attore maturo, sembra che l’attesa del perfezionamento della tecnica sia finita.
Il vecchio Will contro il giovane Will diventa un’esperienza ‘visivamente’ intensa e potente. La maggior parte degli elogi, quindi, va alla riuscita combinazione del 3D, alla cinematografia high frame 120 al secondo (un film “normale” segue lo standard 24 fps) e all’ingegneria informatica che hanno consentito di dar vita al giovane clone di Smith (che, è bene ricordare, oggi ha 50 anni).
Tutte le azioni e i movimenti, sia nei combattimenti che nei dialoghi, vengono percepiti in modo vivido e intenso, alla stessa stregua stessimo guardando un documentario con immagini prese direttamente dalla natura. Le sequenze d’azione sono travolgenti ma si apprezza maggiormente il livello di perfezione della creazione digitale del clone nelle conversazioni e nei momenti drammatici. Il personaggio ricreato digitalmente riesce a trasporre perfettamente tutte le espressioni del suo interprete con una capacità mimetica sorprendente.
Troppo convenzionale? Forse. Ci si poteva avvalere di una sceneggiatura più originale? Anche. Ma Ang Lee ha sempre dimostrato nella sua filmografia il coraggio di includere i progressi tecnologici e la voglia di indagare nel profondo dei propri personaggi.
Gemini Man non fa eccezione, attribuisce alla tecnologia uno scopo narrativo. Non risulta una semplice aggiunta che abbellisce il tutto correggendo i difetti; gli effetti speciali diventano una parte essenziale del film per veicolare il messaggio della storia; il concetto del “doppio”. Il tema delle scelte compiute o di quelle che avremmo dovuto fare, veicolando forse anche un accenno critico alla società attuale nella quale il “vecchio” e il processo di invecchiamento sono visti con occhio turpe, in un’ottica fallace che vede nel “bello perché nuovo” il Vangelo del XXI secolo.
Ang Lee ci consegna un semplice divertissement, tecnicamente ben fatto, ma che sconta forse la presenza di qualche cliché di troppo.
Gabriela