Ghostbusters: Legacy recensione film di Jason Reitman con Paul Rudd, Finn Wolfhard, Mckenna Grace, Carrie Coon, Bill Murray e Dan Aykroyd
La settimana scorsa abbiamo rivisto il nostro vecchio amico Mario. Erano anni che non ci sentivamo ma è stato come se fossero passati pochi giorni. Si vede che il tempo è passato per entrambi, ma sotto sotto siamo ancora gli stessi di sempre. Le smorfie, i gesti, la complicità, mi sono sentito catapultato indietro nel tempo in quelle due ore di chiacchiere sul viale dei ricordi. Ci siamo salutati affettuosamente ma rimanendo estremamente vaghi sulla prossima volta in cui ci saremmo visti, poi ognuno ha ripreso la sua strada ed è tornato alla propria vita. Lo rivedremo? Ci sono buone probabilità. Quando? Non è dato sapere. Ci mancherà? Ni. Sicuramente è stato bello, ma in fondo tra un incontro e l’altro c’è una vita che va vissuta.
Chissà se Mario si offenderà, ma non c’è metafora più efficace per avvicinarsi con cautela al ritorno dei flussi protonici di Ghostbusters: Legacy, la fatica di Jason Reitman nel riportare in auge un franchise non più di primo pelo e vittima della sua stessa iconicità.
Tra sequel, reboot e spin-off crossmediali, il mondo degli Acchiappafantasmi ha visto tramontare progressivamente fascino e potenza rimanendo confinato in momento cult del cinema a stelle e strisce. Il lavoro del figlio di Ivan Reitman si è concentrato nella direzione tracciata in modo stranamente complementare dai sottotitoli che accompagnano il film. Se in italiano si fa riferimento ad una nuova generazione di esploratori del paranormale con inevitabile passaggio di testimone, nella versione internazionale la questione si fa più specifica evocando un Afterlife che è sicuramente un esplicito omaggio ad Harold Ramis (scomparso nel 2014) ma anche un’esplorazione della leggenda.
Oggetti, antagonisti, personaggi sono evocati con il rituale di oltre trent’anni fa per compiere un ultimo atto di fede e dimostrare a fedeli e miscredenti che l’attività paranormale è lontana dall’essere cessata. È la stessa struttura del film a raccontarlo: i suoi protagonisti passano buona parte del tempo a levare polvere dalle origini, riannodare fili con il passato e mostrare come e perché si è arrivati a questo punto attraverso i volti chi ne ha affrontato le conseguenze. Tutto sembra voler ricordare il picco di attività paranormale registrato a New York nel 1984, che è stato un evento da cui non si può prescindere e verso cui andare in devoto pellegrinaggio, rimanendo in un alveo inattaccabile e riproposto in maniera quasi pedissequa.
D’altronde gli anni sono passati anche per Dan Aykroyd, Bill Murray ed Ernie Hudson ed è difficile non avere un sussulto di nostalgia davanti ad un ultimo incrocio di flussi per sventare l’ennesima minaccia globale. Che, a dire il vero, ha una dimensione circoscritta dalla periferia, dalla campagna, da luoghi dal sapore vintage anacronistico e da un pericolo non più sconosciuto come in passato. Chi conosceva Peter, Ray, Egon e Winston è già alfabetizzato, chi li incontra per la prima volta avverte un’atmosfera controllata in cui la situazione non è mai del tutto fuori controllo perché ci sono dei numi tutelari pronti a risolvere la situazione. Uno c’è solo in spirito e in CGI ma il messaggio dovrebbe arrivare comunque a destinazione: il 555-2368 è ancora attivo per tutti coloro che dovessero averne bisogno.