Mondocane: intervista a Giuseppe Maio direttore della fotografia del film di Alessandro Celli con Alessandro Borghi [degenere]

Mondocane: intervista a Giuseppe Maio, direttore della fotografia del film di Alessandro Celli con Alessandro Borghi, Manuel e Romulus

Giuseppe Peppe Maio è un direttore della fotografia italiano. Fra i suoi lavori più noti, Manuel di Dario Albertini, Romulus e il recente film di fantascienza distopica Mondocane, gli ultimi due prodotti da Groenlandia di Matteo Rovere.

Giuseppe Maio: intervista al DOP di Mondocane

Qual è stata la tua formazione come direttore della fotografia e quali sono stati i tuoi primi lavori?

Giuseppe Maio: Dopo gli studi universitari sono entrato al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove ho avuto l’immensa fortuna di studiare con il maestro Peppino Rotunno. È durante quegli anni che l’idea di essere partecipe del processo creativo di un film è diventata più solida e reale, il desiderio e l’ambizione di essere un direttore della fotografia hanno iniziato a farsi spazio in me. D’altronde, avevo davanti esempi illustri come Peppino Rotunno, Mario Cimini, Emilio Loffredo. In quegli anni la formazione mentale, artistica e tecnica ha preso corpo.

I primi lavori a cui sono più legato sono The Plastic Cardboard Sonata e Manuel. Il primo era un film piccolissimo, costato 15mila euro, però ci ha portato dei risultati inaspettati: ha vinto in un festival indiano, è stato al Festival des Films du Monde de Montréal in Canada, ha avuto recensioni molto positive.
Il secondo era l’opera prima di Dario Albertini che ha vinto un sacco di premi, credo sia stata l’opera prima più premiata in Italia nel 2017.

Sono stati entrambi un po’ alla base di quello che è venuto dopo, sono quei lavori in cui anteponi il cuore davanti a tutto quanto e finiscono per essere la tua oasi felice nel momento in cui ti trovi ad affrontare cose più complesse, con dinamiche delicate. Ci penso con l’amore dell’inizio e anche un po’ la grinta dei primi passi nel cinema.

Il regista Alessandro Celli e il direttore della fotografia Giuseppe Maio
Il regista Alessandro Celli e il direttore della fotografia Giuseppe Maio sul set di Mondocane (Credits: Paolo Ciriello/Groenlandia)
Come è nata la collaborazione con la Groenlandia di Matteo Rovere per le due stagioni della serie Romulus?

Giuseppe Maio: Il percorso tra me, Groenlandia e Matteo è cresciuto negli anni, siamo cresciuti insieme, chi in un modo e chi in un altro. Stiamo vivendo insieme questo viaggio.

Le esperienze più solide, cioè quelle che mi hanno portato poi a fare la fotografia di Romulus, sono state la direzione della fotografia della seconda unità in Veloce come il vento e quella della action unit de Il primo re, entrambe con Lyda Patitucci. Dopo queste due esperienze mi è stato proposto di fare la fotografia della serie Romulus per gli episodi di Michele Alhaique.

Come hai conosciuto il regista Alessandro Celli e come sei stato coinvolto nel progetto di Mondocane?

Giuseppe Maio: Sono entrato a far parte di Mondocane grazie a Matteo Rovere, Camilla Fava del Piano ed Enrico Cerabino sono stati loro a organizzare un incontro con Alessandro Celli per il film. Prima di conoscere Alessandro avevo avuto modo di leggere la sceneggiatura e mi sono presentato all’incontro con la voglia di fare il film, perché già a livello di scrittura era molto potente e coinvolgente.
Io e Alessandro ci siamo conosciuti così, è stato davvero un bell’incontro, abbiamo parlato del cinema che ci piace. Al di là di Mondocane, conoscerci è stato entusiasmante.

Sul set di Mondocane di Alessandro Celli
Sul set di Mondocane di Alessandro Celli (Credits: Paolo Ciriello/Groenlandia)
Ambientato in una Taranto distopica, Mondocane sembra ritrovare la tradizione del cinema di genere italiano alla Castellari e dintorni, mantenendo però anche una componente di denuncia sociale trasfigurata. Quali sono state le vostre reference cinematografiche e visive per la fotografia e le scenografie del film?

Giuseppe Maio: Mondocane parte dall’idea di una denuncia sociale, che non è soltanto una denuncia ecologica ma anche umana ed esistenziale. È il portarsi avanti sulla visione di un futuro né troppo lontano né troppo vicino e delle dinamiche umane che sono frutto di scelte fatte nel passato. Il film parte dal presente, rielabora la condizione che viviamo oggi e cerca di dare delle risposte su quello che arriverà domani. Certamente decide anche di immergersi in un mondo distopico e postapocalittico, dove prende forma e si dà identità alla storia, oltre che dove si muovono i personaggi.

Sì, Mondocane ripercorre un po’ la tradizione del grande cinema di genere italiano e sono contento che questo sia arrivato. Però non perde mai di vista il messaggio sociale e politico, che era l’idea di Alessandro e di cui abbiamo parlato più e più volte. Il cinema di genere dovrebbe essere questo, c’è sicuramente l’aspetto spettacolare e coinvolgente, ma se c’è anche un’autorialità e un messaggio si confeziona un film articolato su più livelli.

Le reference sono state veramente tante, già dal primo incontro la condivisione di idee tra me e Alessandro è stata subito prolifica e fertile. A livello figurativo e di pittura siamo partiti da Bosch per arrivare alle rappresentazioni grafiche di Pavel Proskurin o Michael Karcz, artisti che lavorano tra fotografia e grafica, che trasformano con la computer grafica la foto di un paesaggio in uno scenario postapocalittico. È questo il tipo di percorso visivo e concettuale che abbiamo fatto: partire da un presente, visualizzarlo e modificarlo fino a portarlo a un futuro che ti sembra possibile, se consideri le scelte che facciamo oggi.

A livello fotografico, ad esempio, ci siamo ispirati a Nick Brandt, che ha una fotografia molto concettuale. Oppure alle fotografie di viaggio di Mike Brodie, ai suoi bellissimi reportage nella provincia americana. C’è anche tanto la fotografia di Valerio Bispuri, un grandissimo reporter italiano.

Il direttore della fotografia Giuseppe Maio sul set di Mondocane
Il direttore della fotografia Giuseppe Maio sul set di Mondocane (Credits: Paolo Ciriello/Groenlandia)

Per darti un’idea della trasversalità delle ispirazioni: abbiamo attinto anche ai segni lasciati nelle Grotte di Lascaux. Comunque sia il film lavora molto anche sul tema dell’assenza del passato, di un segno precedente, se pensiamo anche alla scena del crocifisso. Il segno dell’uomo primitivo in quelle grotte era scevro da qualunque condizionamento ideologico, religioso, politico; quel grado zero o meno uno della conoscenza ci interessava. I ragazzini del film sono frutto di un passato e di un futuro, ma soprattutto di un futuro che non ricorda il passato, ed era importante lavorare sull’idea del segno.

Un altro punto importante è stata l’idea della rimodellizzazione degli spazi. Abbiamo pensato anche a un reportage fatto a Skatopia, che è un luogo dell’estrema provincia americana, dove un gruppo di persone ha formato una comunità tribale di cui lo skate è la massima espressione. Siamo partiti anche da questo, dal riterritorializzare un ambiente e farlo proprio, che poi è quello che fanno le formiche.

A livello cinematografico sicuramente ha avuto molto peso l’ambientazione assolata del cinema latino. Partendo da Babenco o Cuarón di Y tu mamá también – Anche tua madre, ma anche da Fukunaga con Sin nombre. Ci siamo concentrati sull’ambientazione assolata, dove il sud del mondo fa ancora battere il cuore. È un substrato che cerca di resistere e in fin dei conti è questa l’idea del Formicaio. C’è anche la distopia classica del grandissimo cinema italiano, come Todo modo o La decima vittima di Petri, sempre pensando al futuro. Ma la gran parte della ricerca fotografica si è mossa su quei film che avevano nel cuore il sole, l’America Latina, l’identità geografica e quella ribelle. Un altro film “giusto” nell’isolamento di identità alta e identità bassa è La zona di Rodrigo Plá, dove c’è una netta separazione tra i due mondi, in cui basta una recinzione o un semplice muro a segnare un confine. Alessandro dice sempre per lui una delle fonti più d’ispirazione più grandi è stata proprio l’edificazione del muro tra Stati Uniti e Messico.

Il direttore della fotografia Giuseppe Maio sul set di Mondocane
Il direttore della fotografia Giuseppe Maio sul set di Mondocane (Credits: Paolo Ciriello/Groenlandia)
Come si è svolta la fase di sopralluoghi, e dove si trovavano le location alla fine scelte?

Giuseppe Maio: La fase dei sopralluoghi credo sia la fase più creativa e immaginativa della preparazione di un film. È il momento in cui si struttura l’idea che poi metti in pratica sul set quando iniziano le riprese.

I sopralluoghi sono stati fatti sia a Roma che a Taranto, perché il film è stato girato in queste due città. Alessandro era molto legato al valore geografico e territoriale, per cui voleva che le scene ambientate a Taranto fossero realmente girate a Taranto. Abbiamo scelto delle location sia sul Mar Piccolo che nel quartiere Tamburi, nella zona a ridosso dell’ILVA insomma.

È stato un bellissimo lavoro, la scelta delle location era in fin dei conti la parte centrale per  restituire l’atmosfera del film. Anche un palo della luce, che uno magari dà per scontato, può fare la differenza. Ogni ambiente scelto andava comunque rimodellato e portato verso l’idea grafica a visiva del film.

Con quale macchina da presa hai scelto di girare il film e con quale set di lenti? Hai impostato una LUT prima di iniziare a girare?

Giuseppe Maio: Mondocane è stato girato con due Arri Alexa, una Mini e una SXT, e le lenti che abbiamo utilizzato sono state le Canon K35 rehoused da TLS e messe nella perfetta condizione da Massimo Proietti.

Avevamo due LUT: una per il giorno e una per la notte.

Quante settimane prevedeva il piano di lavorazione, e quali sono state le scene più difficili da girare?

Giuseppe Maio: Il piano di lavorazione prevedeva, se non erro, sette settimane, per cui era anche abbastanza tosto da portare avanti.

Tutte le scene avevano una loro difficoltà, ma ci siamo divertiti a farle un po’ tutte, al netto della classica tensione da set. Le più difficili sono state, anche secondo Alessandro, quelle in esterno, perché bisognava lavorare molto sui cieli. Il cielo restituisce sempre un valore simbolico a quello che viene visto dallo spettatore. Su Taranto Nuova, ad esempio, era molto bello per noi che il cielo fosse terso e pulito, mentre il peschereccio o l’orfanotrofio era giusto che fossero immersi in un mondo in cui le nuvole dell’acciaieria creassero una densità d’ atmosfera che rimandasse all’inquinamento. Anche nel percorso che fanno i ragazzi per tornare a casa era molto importante, per noi, che il cielo restituisse qualcosa di graficamente importante, che fosse un messaggio. C’è stata quindi un’attenzione totale nella scelta degli orari, affidandoci anche alla fortuna per il meteo, pianificando per quanto possibile quando fosse meglio girare determinate scene. Era importante avere un forte impatto meteorologico sull’immagine: un cielo terso ci riportava alla parte sana della città, un cielo plumbeo dava invece l’opportunità di comunicare il senso di asfissia che vive chi si ritrova nella parte sfortunata della città. Col senno di poi, siamo stati molto fortunati nelle scelte, il cielo ci ha assistito.

Negli interni le difficoltà ci sono state, magari con il braccio meccanico, ma direi nella norma di ogni film. Forse quelle nell’acciaieria, in una location così grande, sono state un poco più complesse.

Il direttore della fotografia Giuseppe Maio
Il direttore della fotografia Giuseppe Maio (Credits: Paolo Ciriello/Groenlandia)
Come hai caratterizzato fotograficamente l’ambientazione del Formicaio, una delle più ricorrenti del film?

Giuseppe Maio: Il Formicaio è stato un po’ la madre di tutte le scelte fotografiche. Contiene un po’ tutta la palette colore del film, infatti. Era un ambiente importante, che dava identità alle formiche e al personaggio di Testa Calda, ma a sua volta da questo micromondo si poteva raccontare un macromondo.

Il posto è stato trovato dopo una notevole ricerca di scouting ed è a Roma, dà molto l’idea di un luogo sotterraneo, carbonaro, quasi alle viscere della Terra. Allo stesso tempo è il posto che indica la differenza tra il sopra e il sotto. Tutte le scene sono caratterizzate da finestre molto alte, che aiutano a dare il senso di sotterraneo.

L’idea fotografica era divisa in due modi. La differenziazione tra notte e giorno ho pensato fosse molto importante. Di giorno le finestre sono illuminate come da una luce riverberata del cielo, una luce neutra ma che entra da lì. Di notte, invece, dalle stesse finestre arriva una luce che è un riverbero industriale. In notturna le finestre diventano infatti più gialle e verdi, che era la mia idea per caratterizzarle.

Era importante che questo mondo vivesse sempre un po’ di luce riflessa, perché è nascosto. Ci siamo divertiti a strutturare l’idea grafica, perché è stato anche l’inizio delle riprese, è stato girato proprio i primi giorni. È stato un vantaggio, nonostante non fosse semplicissimo, perché abbiamo potuto consolidare la palette che avevamo stabilito in fase di preparazione.

Come hai fotografato invece il finale di Mondocane, un po’ alla Terminator, ambientato nel cuore dell’acciaieria?

Giuseppe Maio: Terminator è stata una reference, l’abbiamo studiato e portato nella discussione. Tutto il blocco finale è frutto di un cambiamento a livello fotografico. Il giallo-verde che caratterizzava l’ambito industriale vira verso un verde più acido. La scena della fabbrica, in cui c’è il confronto diretto tra i personaggi e la risoluzione di una storia, è stata abbastanza complessa. L’abbiamo girata in due posti completamente diversi. Il primo che vediamo è l’acciaieria vera e propria, mentre la parte del finale, del confronto fra Mondocane e Pisciasotto, è stata girata a Roma. E l’ordine in cui abbiamo girato era invertito, prima il finale e poi l’acciaieria.

È stato abbastanza difficile far comunicare i due ambienti, anche perché l’idea visiva era piuttosto invadente e importante. Abbiamo dovuto reilluminare quella fabbrica così grande, intervenendo su ogni luce presente e aggiungendo anche della luce nostra, per arrivare a quel tono della scena già girata a Roma.

Mi fa molto piacere questo rimando a Terminator, è bello, in effetti tutta la rincorsa tra il porto e l’acciaieria inacidisce tutti i colori per dare l’idea di un atto conclusivo.

Dennis Protopapa e Giuseppe Maio
Dennis Protopapa e Giuseppe Maio (Credits: Paolo Ciriello/Groenlandia)
Sul set di Mondocane, che interazione hai avuto con Alessandro Borghi e con i giovani protagonisti del film?

Giuseppe Maio: Il rapporto con Alessandro Borghi è stato come sempre estremamente coinvolgente, io lo conoscevo già dall’esperienza de Il primo re. È stato anche l’elemento trainante e organico per tutti gli altri membri del cast, specialmente i ragazzini, che sono bravissimi ma non erano professionisti. Con Ale c’è un rapporto di grande amicizia e professionismo.

Anche con Dennis e Giuliano il rapporto è stato fantastico, perché sono due ragazzini davvero simpatici, nel senso più vero del termine. Sono molto diversi, uno è timido e introverso e l’altro molto più “mattatore”.  Abbiamo legato molto e ogni volta che ci vediamo li saluto come fossero dei fratellini più piccoli. È stata una bellissima condivisione e scoperta di questi mondi.

Come si è svolta poi la color correction di Mondocane? Quali scene hanno richiesto un maggiore apporto in VFX?

Giuseppe Maio: La color correction è stata fatta ad InHouse con Christian Gazzi come colorist che ringrazio perché sono molto contento del risultato. È stato un lavoro che abbiamo preparato prima delle riprese. Non volevamo che i colori fossero ricreati totalmente in post ma che fosse un modo di far comunicare le scelte fatte sul set. Mi spiego meglio: abbiamo fatto molti provini fotografici sul tipo di gelatine da usare per ottenere il colore che volevamo. A livello di colorimetria sono state fatte scelte molto precise sul set e andavano equilibrate e trattate con la massima attenzione in fase di post-produzione. Christian è stato davvero molto, molto bravo.

Per i VFX, anche il lavoro fatto con EDI (Effetti Digitali Italiani) è stato discusso con attenzione, previsualizzando gli interventi da fare. Per il 90% gli interventi sono stati decisi in fase di preparazione, molto spesso si trattava di agire sul background: aggiungere le acciaierie, rinforzare le fabbriche, cose di questo tipo. Il lavoro di EDI e di Franz Pepe in prima persona è veramente coerente con la narrazione e tecnicamente impressionante. Grazie al lavoro a monte, sul set è stato facile stabilire cosa inserire e dove.

Sul set di Mondocane di Alessandro Celli
Sul set di Mondocane di Alessandro Celli (Credits: Giuseppe Maio/Groenlandia)
Come mai pensi che, dopo una gloriosa stagione negli anni sessanta e settanta con i vari Bava, Castellari, Argento e Cozzi, il cinema di genere italiano sia andato in crisi? Vedi, grazie a case di produzione come Groenlandia, segnali di un rinnovamento?

Giuseppe Maio: Negli anni ’60, ’70, ’80 coesistevano alla grande generi diversi e distanti. Bava e Antonioni, Wertmüller e Dario Argento, Pasolini e Castellari. Era un cinema eterogeneo dove ciascuno si nutriva dell’altro. Negli anni ’90 abbiamo visto una perdita e un azzeramento del nostro cinema di genere, ma semplicemente perché sono stati anni in cui gli autori credo abbiano quasi smesso di immaginare, si è persa un po’, passami il termine, la forma del cinema. Abbiamo perso l’aspetto visivo a cui eravamo stati abituati negli anni precedenti. Sapevamo molto bene chi fossero i nostri illustri predecessori.

Oggi è vero che stiamo riscoprendo il cinema di genere, grazie anche alla battaglia personale di Groenlandia, che comunque non promuove un cinema fine a se stesso ma un cinema che attraverso l’immaginazione racconta storie.

La riflessione sulla scomparsa e ricomparsa del cinema di genere dev’essere più ampia. Quello che mi sento di dire è che da quella tradizione trasversale che dicevo che è stata messa da parte, noi la stiamo un po’ riscoprendo. È, tra l’altro, anche un cinema divertente da fare. Groenlandia ci offre delle possibilità importanti, che permettono anche una crescita professionale del settore. Confrontandosi con un lavoro fatto da VFX e SFX, ti trovi ad affrontare anche degli strumenti che altrimenti non vedresti. Oltre al risultato finale c’è anche un risultato preparatorio che fa crescere l’industria e in qualche modo ci fa anche notare a livello internazionale, rispetto alle capacità e al potenziale che il cinema italiano continua ad avere.

*Si ringraziano Tobia Cimini e Lorenzo Castagnoli per la collaborazione

Perché MadMass.it

Consapevoli del nostro ruolo, da sei anni in MadMass.it portiamo avanti una linea editoriale responsabile, preferendo la copertura dei festival al content farming, le recensioni al clickbait, le rubriche e le interviste al sensazionalismo. Stiamo cercando di fare la nostra parte: sostienici con una donazione, acquistando i prodotti consigliati sul nostro magazine o semplicemente passa a visitarci, sfoglia le nostre pagine e condividi i nostri articoli sui social: ci permetterai di continuare a crescere e fare sentire la nostra voce.

Articoli Correlati

Commenti

Ultimi Articoli