Godland – Nella terra di Dio recensione film di Hlynur Pálmason con Elliott Crosset Hove, Victoria Carmen Sonne, Hilmar Guðjónsson, Ída Mekkín Hlynsdóttir, Jacob Lohmann e Waage Sandø
Ci sono film che vogliono rappresentare il rapporto tra uomo e natura come una relazione paritaria, quando è evidente che la potenza di quest’ultima supera di gran lunga anche la più arcigna volontà umana. In questa condizione di perenne e solenne sottomissione, il regista Hlynur Pálmason, dirige Godland.
Islanda, fine Ottocento. Al giovane prete danese Lucas (Elliott Crosset Hove) viene affidato l’incarico di costruire una chiesa per la comunità che ha colonizzato l’isola. Nel frattempo deve anche documentare la vita delle popolazioni indigene nello sconosciuto ed impervio terreno islandese. Questo viaggio tra la terribile bellezza di un mondo ostile all’uomo, lo allontanerà sempre di più dalla sua morale. Una trama che all’apparenza è estremamente semplice, costruita su 7 fotografie realmente ritrovate e sul quale Pálmason plasma una epopea. Dalla semplicità scaturisce una storia di colonialismo e di esplorazione, di scontro tra culture diverse e sul rapporto instabile tra fede e natura.
La storia di un viaggio tra paesaggi mozzafiato che però nella bellezza nascondono la loro ostilità. Lasciando l’uomo nudo di fronte al potere della natura, dove anche la fede più dura vacilla e le relazioni umane diventano sempre più difficili. Si tracciano parallelismi importanti, da Martin Scorsese con Silence a Kelly Reichardt con First Cow senza dimenticare Il Petroliere di Paul Thomas Anderson. Film dove la ricerca del rapporto tra uomo, fede e natura è fulcro della storia. In un prototipo di nuovo western, che sempre di più sta prendendo piede nel cinema attuale. Godland rientra con merito in questo filone. Lascia il protagonista al centro, solo, contro il mondo e contro se stesso. In territori ai confini della civiltà conosciuta, alieni per certi versi e sui quali poi si fonderanno culture e popoli attuali. Ecco quindi che la distanza tra i deserti californiani ricchi di petrolio e le incontaminate distese islandesi è sempre più breve, in entrambe sarà la volontà dell’uomo a cambiare la storia.
In Godland i cambiamenti più significativi avvengono lentamente ed in silenzio, senza la necessità della parola o di dialoghi superflui. Dal titolo stesso, sia in danese che in islandese, si può comprendere la dualità tra umanità e natura che il film sin dai primi minuti vuol mettere in atto. Vanskabte Land o Volaða Land, possono essere tradotti come “terra malformata” che forse è l’aggettivo che meglio può rappresentare la pellicola. Malformata non è tanto l’Islanda però, nonostante sia una terra dove nemmeno gli alberi crescono, quando l’umanità di coloro che stanno cercando di conquistarla. Un ambiente che cambia irrimediabilmente l’anima dei popoli.
Se la narrazione è rarefatta nelle parole, non lo è nelle immagini. Ampio respiro viene dato alla componente naturalistica, con grandiosi campi lunghi, dove i corpi umani diventano semplici formiche disperse nel terreno islandese. Non si può rimanere indifferenti dalla bellezza delle cascate o dai paesaggi freddi e montani che l’isola può regalare. Il tutto claustrofobicamente stretto dalla pellicola in 4:3, per ricordare le fotografie e per imprimere una angoscia visiva che contrasta perfettamente con la bellezza di ciò che è messo in scena. Se i campi lunghi sono curatissimi, lo stesso si può dire quando la telecamera si avvicina ai personaggi. Con sapienti piani si imprimono, proprio come durante una fotografia al collodio, i dettagli dei volti scavati e sofferenti sulla pellicola. Con pochi dettagli quindi, si riesce ad ampliare la narrazione, arricchendola di tutta la componente visiva che il cinema merita.
Di grandissimo impatto sia visivo che di significato, un timelapse di poche foto in cui la carcassa di un cavallo si decompone; come a ricordare che la battaglia contro la natura è da sempre impari ed inevitabilmente porterà alla sconfitta. Un lavoro di regia sopraffino, che preferisce lasciare all’immagine il compito di narrare. Da menzionare dunque anche il lavoro della fotografia, in mano a Maria von Hausswolff. Colori acidi, freddi che nemmeno il calore della lava può intaccare. Una fotografia naturalistica, che vuole molto più documentare come una vecchia pellicola o meglio come vecchie diapositive, piuttosto che andare ad alterare eccessivamente ed artificialmente luci e colori che entrano in cinepresa.
Godland è un film da non lasciarsi scappare, passato in sordina al recente Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard e disponibile finalmente nei cinema italiani.
Spirituale, conflittuale e silenziosamente complesso.