Gogò Bianchi: intervista al DOP sulla fotografia della serie TV Anna di Niccolò Ammaniti per la nostra rubrica Degenere dedicata al cinema di genere
Gogò Bianchi (Venezia, 1970), nome d’arte di Gian Enrico Bianchi, è un direttore della fotografia italiano, specializzato in film, documentari, videoclip e serie tv. Fra i film da lui fotografati, LaCapaGira di Alessandro Piva (1999), Estate romana (2000) di Matteo Garrone, Jimmy della collina di Enrico Pau (2007), Pranzo di ferragosto (2008) e Gianni e le donne (2011) di Gianni Di Gregorio, e Un paese quasi perfetto (2016) di Massimo Gaudioso. In ambito televisivo, è sua la fotografia di Fabrizio De André – Principe libero, l’acclamata serie tv della RAI su Fabrizio De André andata in onda nel 2018. Il suo lavoro più recente è Anna, miniserie autoriale di fantascienza post-apocalittica diretta da Niccolò Ammaniti e tratta dal suo omonimo romanzo del 2015.
Qual è stata la tua formazione? Quali sono stati i film e le serie tv che hanno preceduto Anna?
Gogò Bianchi: Io sono nato e cresciuto a Venezia. Nel 1989 ho fatto l’esame al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma ma a quel primo tentativo non venni preso: per ironia della sorte questa fu la mia fortuna, perché iniziai a lavorare in quello stesso anno con Luca Bigazzi, che allora era un promettente direttore della fotografia. L’anno dopo sono stato ripescato e ho frequentato il Centro tra il 1990 e il 1992, però intanto avevo stretto un buon rapporto con Luca e una volta diplomato ho fatto con lui nuove esperienze molto belle: Lamerica di Gianni Amelio, che ci ha portato a stare un anno in Albania, i film di Silvio Soldini e di Michele Placido… Sul set de Lamerica ho iniziato a fare la seconda macchina, ma essendo Luca anche un valentissimo operatore era inevitabile che le nostre strade dopo qualche film assieme si separassero. Ho continuato per un po’ come operatore per altri DOP, poi nel 1999 ho fatto il primo film da direttore della fotografia, LaCapaGira di Alessandro Piva. Di lì ho fatto molti film e videoclip, e poi con l’avvento della tv, che ha ribaltato il rapporto tra cinema e serialità ho iniziato a lavorare anche sulle serie. Un po’ mi dispiace che ormai le serie tv stiano prendendo il sopravvento sul cinema, ma una serie come Anna dimostra che si può trovare l’originalità anche in questo campo. Parallelamente ho portato avanti anche la passione per il cinema documentario, con Alessandro Rossetto ho realizzato cinque lungometraggi documentaristici in pellicola 16mm, e a mia volta ho curato anche la regia di due documentari, A filo d’acqua e I sommersi; penso che questo mi abbia aiutato molto a migliorare come direttore della fotografia.
Come si è svolto il primo incontro con Niccolò Ammaniti? Quali impressioni hai tratto dalla lettura della sceneggiatura della serie e come si sono svolti i sopralluoghi?
Gogò Bianchi: Io conoscevo già Niccolò, in parte perché avevo già lavorato con la sua compagna, l’attrice Lorenza Indovina, in altri progetti, e Lorenza aveva anche diretto un paio di cortometraggi da regista, in cui io avevo fatto da direttore della fotografia, tratti da racconti di Ammaniti. Conosco bene anche Daria D’Antonio, che aveva fotografato Il miracolo, la sua prima serie tv, dove ero subentrato anch’io come seconda unità in certi momenti delle riprese; conoscevo peraltro anche Lucio Pellegrini, un altro dei registi che lo avevano affiancato in quel primo progetto seriale. La produzione di Anna aveva una grande fiducia in Niccolò, ma siccome stavolta non c’erano altri registi, il progetto al pari de Il miracolo era decisamente ambizioso, bisognava dirigere molti bambini e nel mentre ricreare un vero e proprio universo, voleva essere sicura che lui stesse, registicamente parlando, in una comfort zone. Il mio coinvolgimento nella serie è stato graduale, mi ha iniziato a parlare del progetto, mi ha chiesto se potevo essere disponibile, ho letto il romanzo a partire dal quale Niccolò stava realizzando la sceneggiatura assieme a Francesca Manieri e ho preparato un moodboard.
Quali materiali e suggestioni visive componevano il moodboard? In generale, quali reference avete condiviso tu e Niccolò Ammaniti per Anna?
Gogò Bianchi: Nel moodboard che ho preparato inizialmente per Ammaniti c’erano soprattutto fotografie di Letizia Battaglia, che davano una rappresentazione originale della Sicilia, e che a volte mostravano come la natura riprendeva sopravvento sullo spazio urbano, in case o paesini abbandonati. Abbiamo poi parlato di molti film io e lui, Niccolò in quel momento era molto appassionato da Il sacrificio del cervo sacro di Yorgos Lanthimos ma in verità non avevamo uno specifico film di riferimento; col passare del tempo, stando al suo fianco, ho anzi capito che Niccolò voleva evitare ogni riferimento o citazione a film apocalittici che sulla carta potevano essere simili, come The Road: la sua intenzione era se mai di ricreare un mondo tutto suo. Niccolò peraltro aveva già scritto il libro di Anna, conosceva a menadito i suoi personaggi e il mondo in cui voleva farli muovere: la serie gli permetteva di proseguire oltre il libro, ma il mondo che voleva descrivere era già molto preciso. Fa impressione il fatto che quando abbiamo iniziato le riprese quel mondo post-apocalittico era del tutto teorico, uno scenario futuribile tra mille altri possibili, e poi piano piano, mentre giravamo la prima parte della serie, diventava paurosamente sempre più simile alla realtà.
Come si sono svolti i sopralluoghi e dove si trovavano le location della serie?
Gogò Bianchi: La casa dei protagonisti, il Podere del Gelso, sembrava trovarsi nei dintorni di Palermo ma in realtà la location dove abbiamo girato stava al confine tra Lazio e Toscana. Anche l’interno della villa di Angelica è stato girato a Frascati, l’esterno invece è a Bagheria. Dopo di che, tanti esterni o semi-esterni in Sicilia, alcuni molto riconoscibili come l’Etna. Abbiamo girato qualcosa anche a Montaldo di Castro, nella provincia di Viterbo: girando a luglio non c’erano spiagge libere in Sicilia e lì abbiamo trovato una spiaggia deserta, chiusa, perfetta per una sequenza dell’episodio finale. Durante l’estate del 2019 Niccolò, io e gli altri capireparto abbiamo iniziato a fare una serie di test e di prove, soprattutto nel Podere del Gelso, per parlare a più riprese di come girare la serie, iniziando davvero a conoscerci su un piano professionale. In un lavoro come il nostro si possono avere le stesse coordinate, gli stessi gusti cinematografici, ma prima che inizino le riprese devi davvero verificar che ci sia una continuità tra le idee narrative del regista e l’aspetto visivo che tu come direttore della fotografia vorresti dargli. Di incontro in incontro, ho capito sempre più la nota a livello colorimetrico, a livello di contrasti e a livello di colori, fino ad arrivare al risultato finale che si vede in tv.
Con quale macchina da presa hai girato Anna, con quale set di lenti e con quante macchine da presa giravate contemporaneamente?
Gogò Bianchi: La macchina che abbiamo scelto è stata la RED Gemini, innanzitutto perché ha una grande capacità di lavorare con delle luci basse e questo era indispensabile per inquadrare un mondo apocalittico dove non c’è più energia elettrica. Anche in scene illuminate solo a lume di candela la Gemini sapeva rendere un contrasto adatto. Tutti noi, e in modo particolare Niccolò, eravamo preoccupati a dare alla serie un look il meno possibile televisivo, con una pasta il più possibile cinematografica. Volevamo anche che le lenti aiutassero a dare una dimensione assolutamente diversa dal naturalismo a questo mondo distopico. Per ottenere questa sensazione abbiamo scelto innanzitutto di impiegare un formato panoramico, che esaltava gli ambienti naturali e i paesaggi; inoltre ho ritenuto che delle lenti anamorfiche, lavorando generalmente in esterni di giorno con dei diaframmi molto aperti, avrebbero reso bene l’idea di un mondo che si allontanava da ogni realismo e per questo abbiamo usato delle Cooke Serie I, con due Technovision per avere le focali più strette. Nelle scene con bambini molto piccoli, e in generale per tutta la seconda metà delle riprese, siamo arrivati a girare con tre macchine da presa contemporaneamente, con una certa alternanza di operatori. Un certo puto ci siamo anche separati per tre settimane del secondo blocco in due unità, con Matteo Carlesimo alla fotografia.
Iniziata a girare, come dice il cartello all’inizio delle riprese, “sei mesi prima dello scoppio dell’epidemia di Coronavirus”, quello di Anna come tutti i set italiani è stato bloccato quando si è diffusa in Italia la pandemia, con la quale la serie si trovava ad avere delle sorprendenti somiglianze. Quanto è durata complessivamente la produzione di Anna, e come avete gestito il fermo imposto dal Coronavirus?
Gogò Bianchi: Noi abbiamo iniziato a girare a inizio ottobre, c’è stato un fermo natalizio di due settimane, e poi siamo andati avanti fino ai primi di marzo, quando c’è stato il fermo dei set a causa del Coronavirus. Durante il lockdown si sono accumulate diverse preoccupazioni: intanto che i bambini crescessero troppo per mantenere la continuità della storia, e poi in generale con quali protocolli si sarebbe ripreso a girare, a lockdown finito. Niccolò ha anche cambiato alcune cose, spostando certe scene in esterni o eliminandole. Peraltro il progetto originale era di otto puntate, che durante il lockdown sono scese a sei. Per fortuna quando ci siamo fermati avevamo finito di girare le scene con molti personaggi, tutte le prime puntate, la Picciridduna, il funerale, e molte delle scene di masse erano state affrontate: restavano scene con 2 – 4 personaggi al massimo in giro per la Sicilia. Un aspetto positivo del lockdown, nella disgrazia mondiale del COVID-19, è stato che Niccolò durante quelle settimane ha potuto montare la prima parte del girato, capendo su quale linea proseguire una volta ripartite le riprese. Abbiamo poi ripreso a girare Anna ai primi di luglio, continuando fino a metà settembre, con una pausa di una settimana a Ferragosto.
Oltre che la tua fotografia e la capacità di Ammaniti di scrittura dei personaggi e di visualizzazione delle scene, di Anna restano impresse anche la cura psicologica e cromatica dei costumi, del trucco delle diverse “ronde” di bambini, delle scenografie. Come ti sei confrontato con gli altri reparti?
Gogò Bianchi: Mi sono confrontato molto bene sia con lo scenografo Mauro Vanzati che con la costumista Catherine Buyse Dian. Per me è evidente che ognuno ha saputo innanzitutto andare al di là del proprio orticello, ma pensare all’insieme: questo in parte era merito del nostro ottimo “direttore d’orchestra”, Niccolò Ammaniti, che aveva indicato con grande precisione la sua visione di insieme. Talvolta subentravano problemi tecnici, come nella scena in cui Angelica viene uccisa nella vasca, per cui non bastava un dolly ma abbiamo dovuto costruire un complicato sistema di carrucole: l’idea registica di Niccolò era bella da pensare, ma molto complessa di realizzare. Una questione che stava molto a cuore a Niccolò, e che è stata oggetto di molti provini in fase di preparazione, riguardava il colore delle pelli dei bambini, soprattutto il gruppo del blue. Prima di arrivare a decidere quale tonalità di blue e quale pigmento impiegare per colorare gli incarnati sono stati fatti molti test e molti tentativi, soprattutto per la scena del battesimo di Astor: in questo è stata molto utile la collaborazione di Makinarium di Leonardo Cruciano, che ci ha permesso quantomeno di lenire le difficoltà di coniugare così diversi aspetti dell’immagine. Quando però entri in set così belli da un punto di vista scenografico, e quando trovi gli attori vestiti così bene, è facile essere ispirati, come direttore della fotografia.
Dove si è svolta la color correction del film e quali sono stati i principali interventi in fase di post-produzione? Era stata realizzata una LUT in fase di preparazione?
Gogò Bianchi: Per testare la resa sullo schermo dei pigmenti sulla pelle dei bambini erano stati fatti già diversi test fotografici ed era stata trovata una LUT che accentuasse questi colori. Con Niccolò abbiamo fatto un vero e proprio test, al Podere del Gelso, su trucco, luci e fotografia, per capire quali lenti usare. Devo dire che la color, fatta alla Grande Mela Film con Andrea Orsini, è rimasta molto in linea con l’idea iniziale. La cosa importante, dal mio punto di vista, è che in fase preparatoria il DIT Amedeo Lanza abbia un interscambio molto importante con il colorist: metterli in relazione e fare dei test preparativi che diano un buon risultato sul set ma che permettano anche a chi viene dopo a lavorarlo di esaltarlo ulteriormente. Questo ha permesso anche a Niccolò, quando è venuto in color, a non avere praticamente nessun ripensamento sul tono visivo: potevano cambiare piccole cose, ma l’impianto generale è rimasto immutato.
Quali scene hanno richiesto un maggiore apporto di effetti visivi?
Gogò Bianchi: Diverse scene della serie richiedevano un intervento di VFX, soprattutto dopo che ad Anna viene tagliato il braccio, ma anche la sequenze delle visioni di Astor. Durante il lockdown poi è stato chiesto ad alcuni dronisti che lavoravano per la Questura, e anche a un filmmaker locale, di girare per la serie delle immagini di Palermo deserta: quelle immagini sono state poi rielaborate in VFX, ma “grazie” al lockdown erano già in partenza svuotate di tutto ciò che era umano, sia le macchine che le persone. Del braccio si è occupato Fabrizio Storaro, cancellandolo in numerose scene.
Cosa ti ha lasciato, artisticamente e umanamente, la produzione di Anna?
Gogò Bianchi: La produzione di Anna è stata lunga, considerando anche la pausa del COVID-19 è durata un anno, e poco a poco ho guadagnato la fiducia di Niccolò Ammaniti: questo è stato molto stimolante, perché lui come regista ti spinge molto ad andare verso i tuoi limiti, e ti dà coraggio. Anche rispetto al mio percorso, penso che Anna sia arrivata quando avevo la maturità di prendere rischi. In un certo senso, la serie di Niccolò è stata per me l’incrocio diverse esperienze. Per lavorare con i bambini piccoli è stata utile la mia esperienza con i documentari: un bambino di tre anni non recita, devi saper prendere quello che ti dà, nel momento migliore, alla luce migliore. In certe scene si entrava in un mondo più pulp, sanguigno e visionario, e in questo è stata utile la mia esperienza con i videoclip. Il mio reparto poi è stato di enorme sostegno, girare in anamorfico e girare spesso in luce naturale vuol dire avere diaframmi quasi proibitivi, e ho avuto operatori bravissimi, ottimi gaffer, ottimo capo macchinista, ed assistenti che anche con lenti impossibili sono riusciti a mettere a fuoco. Avere un’equipe così solida alle spalle mi ha dato grande libertà espressiva.
Tu lavori nel cinema sin dagli anni novanta, ma almeno dai tempi di Fabrizio De André – Principe Libero sei piuttosto richiesto anche nel mondo delle serie. Come pensi che sia cambiata la serialità televisiva negli ultimi anni, e quali sfide porta a un cinematographer il doversi confrontare con il mezzo seriale?
Gogò Bianchi: In generale, quello portato dalla serie è un cambiamento molto rapido: ogni cosa che si dice adesso tra sei mesi rischia di essere datata. È molto difficile sia analizzare il presente e tanto di più il futuro. La sensazione che ho io è che le serie sono nate con le tv generaliste e che di conseguenza non erano prodotti molto arditi, ad ogni livello: sia la regia che la sceneggiatura che la fotografia dovevano essere molto standard. A un certo punto però sono subentrati produttivamente anche dei network diversi, che dovevano espressamente distanziarsi dalle tv generaliste: a lungo in Italia Sky è stata l’unica alternativa a Mediaset e RAI, e proprio per questo ha spinto moltissimo serialità diversa, più d’autore. Sono poi arrivati altri network ancora, come Netflix, Amazon, o adesso anche Disney+. Da un lato è interessante essere così collegati a un livello globale: se un tuo prodotto sta su Netflix, lo si vede in tutto il mondo. Dall’altra parte, entri in una logica di studios un po’ estranea alla tradizione del nostro cinema italiano, diventi quasi un numerino, e in prodotti realizzati così “in serie” si rischia di dare uno scarso apporto personale alla visione di insieme, perché si entra un po’ troppo in certa dinamica di industria: ci sono tanti supervisori sullo stesso progetto, che dicono la loro opinione da tutto il mondo, e diventa difficile portare qualcosa di personale. Nella mia visione romantica del cinema, ci dovrebbe essere una persona a cui fare riferimento, il regista, la cui visione a cascata deve contagiare tutti gli altri sul set: se invece la produzione diventa così impersonale, con persone che intervengono magari solo via mail, è difficile sintonizzarsi, anche se parti con le migliori intenzioni.
In cosa pensi che consista allora l’originalità di Anna?
Gogò Bianchi: Anna di Ammaniti è un caso a sé. Innanzitutto, parliamo di uno scrittore che già di suo era una star: si era curiosi di vedere le sue capacità da cineasta, ma si poteva contare già sul suo appeal di scrittore. Questo ha permesso di avere un progetto estremamente in linea con quelle che erano le effettive intenzioni di partenza di un autore: se sei soggettista, autore delle sceneggiature e regista unico di tutta una serie, non puoi che dare un punto di vista chiaro, unico e preciso sulla narrazione. Anna, per me, è resa unica dalla sua “necessità”: questo di Ammaniti non era un tentativo fine a se stesso di vedere e “sperimentare un po’” come rendesse un suo romanzo di qualche anno fa sul piccolo schermo; era chiaro che ci fosse veramente un fortissimo desiderio da parte sua, che poi ha contagiato tutti noi, di andare oltre il suo libro trasformandolo in un racconto più legato alle logiche televisive e cinematografiche. Se pensiamo poi a quello che è successo con la pandemia, con la realtà che è bruscamente entrata nel nostro mondo immaginario, Anna diventa una serie ancora più bella perché non si limita ad essere l’affresco di un mondo apocalittico: le vicende umane e la speranza restano sempre sottotraccia, continuano ad esserci i bambini e le loro umanità. Al tempo stesso però Anna è unico, perché non è consolatorio. Parla di bambini che restano da soli, ma non subentra quella retorica del bambino solidale col prossimo, di buoni sentimenti: la serie di Niccolò mette in mostra un mondo duro, e riflette in qualche modo quell’angoscia che chi ha uno o più figli prova, all’idea che i tuoi bambini possono trovarsi a doversi arrangiare da soli perché tu non li puoi proteggere. Queste sono dinamiche molto forti, se vogliamo anche difficili da vivere se sei uno spettatore empatico: e soprattutto all’inizio Anna ti richiede di superare degli autentici drammi emotivi, per trovare quella speranza che c’è alla fine.