Honey Boy recensione del film ispirato all’infanzia di Shia LaBeouf presentato durante la Festa del Cinema di Roma con protagonisti Noah Jupe e Lucas Hedges
Durante la quarta giornata della Festa del Cinema di Roma 2019 è stato presentato alla stampa Honey Boy, il film basato sull’infanzia di Shia LaBeouf. Ecco la nostra recensione in anteprima.
Quanto gli errori dei padri influenzano la vita dei figli? Questa la domanda alla base di Honey Boy, film diretto da Alma Har’el e scritto da Shia LaBeouf ispirandosi alla sua infanzia. La pellicola segue due momenti della vita di Otis (interpretato da Noah Jupe e Lucas Hedges), un giovane attore che, costretto a ricoverarsi in una clinica a causa del suo alcolismo, è obbligato a fare i conti con il passato. La storia, quindi, salta continuamente tra l’infanzia del ragazzo e la sua degenza nell’istituto.
Alla base dei problemi del giovane sembra esserci suo padre (interpretato dallo stesso LaBeouf), con il quale ha vissuto per un certo periodo della sua vita. Quest’ultimo è la chiave di volta della narrazione. È un personaggio frastagliato, insicuro, violento. Una figura paterna che vuole il meglio per suo figlio, ma che perde facilmente le staffe. La relazione tra queste due figure maschili è instabile, complessa. Se, dapprima, ci sembra di capire che è il padre ad avere le redini della famiglia, con il passare del tempo comprendiamo che è Otis a controllare il padre, in quanto quest’ultimo non è altro che il suo accompagnatore. In sostanza, è al suo servizio e vive grazie ai soldi del figlio.
I ruoli si invertono in continuazione, come una partita a ping pong senza fine. Questo continuo tira e molla funziona in modo sublime anche grazie alla magnifica interpretazione di Shia LaBeouf, che si dimostra sempre più un attore di grande talento. Riesce a portare su schermo una personalità complessa, scissa, indecisa. Sicuramente la sua bravura è dovuta anche al fatto che quelle esperienze, bene o male, le ha vissute. Che quel padre lui lo ha conosciuto. A enfatizzare le performance dei tre attori protagonisti troviamo anche la superba regia di Alma Har’el, che con il suo sguardo candido e sereno riesce a far emergere la bontà e la dolcezza alla base di questa famiglia disfunzionale.
Il cinema compone le fondamenta della narrazione, come possiamo notare sin dai primi minuti, con una scena d’apertura girata e montata magistralmente, dove il confine tra la finzione del set e la vita reale è estremamente labile. Ma non solo. Anche la condizione dell’attore è trattata con un certo riguardo. La performatività invade e pervade la scena, non facendo più comprendere allo spettatore dove la recitazione termini e la realtà prenda il sopravvento. Per tutto il film non si è mai sicuri se si stia guardando un evento realmente accaduto o se ciò a cui stiamo assistendo sia frutto della costruzione mentale di un alcolista disperato, alla ricerca di una figura paterna che gli insegni quale sia la differenza tra la vita e la sua rappresentazione.