House of Gucci recensione film di Ridley Scott con Lady Gaga, Adam Driver, Al Pacino, Jared Leto, Jeremy Irons, Salma Hayek e Jack Huston
House of Gucci è una favola tragicomica ispirata al delitto Gucci del 1995. Diretto da Ridley Scott e sceneggiato da Becky Johnston e Roberto Bentivegna, trasposizione del libro di Sara Gay Forden, arriverà nelle sale italiane il 16 dicembre.
1978, Patrizia Reggiani (Lady Gaga) conosce Maurizio Gucci (Adam Driver) a una festa della famiglia Sarzana. Lei lo scambia per il barista, lui, timido e un po’ impacciato la chiama Elizabeth Taylor, ma basta il cognome Gucci per conquistarla e portarlo sulla pista da ballo. È l’inizio della loro storia e della loro rovina. Figlia del proprietario di un’impresa di trasporto a terra, Patrizia non è la moglie che il padre di Maurizio avrebbe voluto per l’erede del patrimonio Gucci. La famiglia di Maurizio è una delle più importanti e affermate nel mondo della moda, al punto che il potere da loro ottenuto ha permesso alla famiglia di riscrivere la loro storia.
Aldo Gucci (Al Pacino), zio di Maurizio, racconta a Patrizia che loro sono una famiglia nobile, eredi di una tradizione secolare nei lavori di pelletteria iniziata in Toscana ai tempi dei feudi medievali. Ovviamente è tutto falso, ma poco importa a Patrizia, ella ha sempre ambito al successo e pensa di aver trovato il modo per avere quanto desiderato grazie a Maurizio. Così fa di tutto al fine che lui possa avere nelle sue mani e solo nelle sue il marchio Gucci. Avidità o amore, poco importa, ma Patrizia vuole tutto e fa ogni cosa per avere quanto lei pensa le spetti.
Non importano le incongruenze con i fatti di cronaca, i film biografici non sono documentari e non ci si può aspettare veridicità davanti ad un’opera romanza che racconta sentimenti ed emozioni di persone reali. Il problema di House of Gucci non è l’aver voluto riscrivere la storia, ma non averlo fatto abbastanza.
Vi erano tutte le premesse perché questo lungometraggio potesse diventare una grande opera camp: un marchio di moda famoso anche per il suo essere kitsch, una faida famigliare, un delitto passionale, personaggi eccentrici, un gran numero di stereotipi sull’Italia e costumi anni Ottanta; eppure, questo film si trattiene nella sua messa in scena restituendo così un anima sdoppiata, inconciliabile. Da un lato la sgargiante satira a ricchezza e avidità, dall’altro la serietà del racconto true crime; House of Gucci si muove all’interno di queste due realtà creando un immagine frammentata che non è possibile ricongiungere.
Ridley Scott ha piegato, nel corso degli anni, numerosi generi narrativi alla sua volontà, ha creato nuovi stilemi rompendo regole che tutti pensavano inscalfibili, è stato un peccato perciò vedere che House of Gucci, un film che per sua stessa natura si prestava a un racconto eccessivo, sia un’opera così lineare. La regia, il montaggio, la fotografia e la scenografia seguono con attenzione tutti gli stilemi di un thriller famigliare, sfruttandoli al meglio, ma senza sfidarli. Pochissimi sono i primi piani, la regia predilige immagini ampie, dal campo lungo al piano americano, mostrando i personaggi con cura all’interno degli ambienti in cui si muovono e che li caratterizzano. Tra le scenografie costruite con cura primeggiano le case, infatti, che rappresentano attentamente coloro che le abitano. Allo stesso modo la fotografia sfrutta il tono famigliare dell’opera, passando dai colori caldi della semplicità e dell’intimità, ai toni sempre più freddi sinonimo di finzione, ricchezza e avidità. Non a caso un momento fondamentale per la storia della famiglia Gucci avverrà tra pioggia e neve. Questi emblemi classici si scontrano, tuttavia, con la natura dell’opera, la quale vede nella sceneggiatura, nei costumi tipici della moda anni Ottanta e nella colonna sonora un trionfo di eccessi kitsch.
La colonna sonora è un insieme variopinto di musiche italiane e inglesi in totale contrasto con quello che avviene sullo schermo. Scene drammatiche sono affidate all’accompagnamento musicale di canzoni pop anni Ottanta o brani lirici italiani, un effetto stridente e destabilizzante. Il sonoro rompe costantemente la sospensione dell’incredulità, ti riporta dritto in sala allontanandoti da questi personaggi che vedi distanti e con cui non riesci ad empatizzare. La stessa sensazione è restituita dalla sceneggiatura.
Il caffè è l’espresso; gli attori cercano di mantenere, fallendo, per tutto il film un fortissimo accento che non si avvicina neppure a quello italiano; vi sono una quantità di modi di dire all’italiana già vecchi negli anni in cui questo film è ambientato; una battutaccia sul fatto che in Italia non pagare le tasse non è un problema e, ovviamente, anche se non centrava nulla con la storia, in due ore e quaranta di film viene nominata la mafia dopo i primi venti minuti. La sceneggiatura è ricchissima di stereotipi sull’Italia, che se in un’opera kitsch/camp avrebbero potuto essere divertenti poiché messi in discussione con eccentricità, in quest’opera sono solo noiosi e ripetitivi, specialmente davanti ad una sceneggiatura inglese su personaggi che vivono in Italia e che ogni tanto decidono, senza apparente motivo, di dire parole in italiano tra cui primeggiano “ciao“, “bella“, “ca**o” e “cioccolato“, rompendo l’illusione che questi personaggi siano effettivamente italiani. Immaginate un adattamento di Anna Karenina o Guerra e pace con gli attori che parlano in inglese e ogni tanto esordiscono con termini russi causali, “dasvidaniya“!
La sceneggiatura di House of Gucci è il trionfo dei personaggi eccentrici con frasi ricorrenti come il “It’s me Paolo” di Jared Leto nei panni di Paolo Gucci (anche se il suo Paolo suono moltissimo come un Pablo), gesti e comportamenti eccessivi e un insieme di battute che anche nei momenti più drammatici ti portavano comunque a ridere per il grottesco di certe affermazioni. Si tratta sicuramente dell’elemento più tragicomico e, insieme alla colonna sonora, quello che riflette maggiormente l’assurdità di questa storia, la sua originalità e l’eccesso che moda, ricchezza e potere rappresentano.
Sono questi due gli elementi più originali e interessanti dell’ultima fatica di Ridley Scott, la cui messa in scena, però, tradisce. House of Gucci è l’occasione mancata per un film camp, come scritto in precedenza, dove l’eccesso avrebbe reso ridicoli i tanti stereotipi e l’avidità di coloro che vogliono sempre di più rispetto a quando la fortuna abbia già dato loro.
Con una sceneggiatura più sottotono, la pellicola avrebbe potuto rispondere meglio alla messa in scena grigia di un thriller; con una fotografia più colorata e una regia più audace ed eccessiva House of Gucci sarebbe potuto diventare iconico. Ci sono tanti “forse“, “avrebbe potuto” in quest’opera, perché i presupposti vi erano tutti e il risultato finale non è deludente poiché qualcosa non funziona, ma perché non vi è stato abbastanza coraggio per fare qualcosa di nuovo e diverso.