I Mitchell contro le macchine recensione film d’animazione di Michael Rianda e Jeff Rowe con Abbi Jacobson e Danny McBride
La più grande sfida che i film d’animazione americani si sforzano di affrontare è quella di trovare il giusto equilibrio per un intrattenimento luminoso e intelligente sia per i bambini che per i loro più disillusi genitori. Ormai sono più di trent’anni che i grandi produttori di film d’animazione statunitensi (Disney, Pixar e Dreamworks in primis) dimostrano di saper raggiungere traguardi molto soddisfacenti, che però rischiano di occultare la fama di alcune perle più piccole che meritano ben altro riconoscimento.
Il film d’animazione I Mitchell contro le macchine, realizzato da Sony Pictures Animation e distribuito da Netflix, riflette con tutti i crismi i requisiti del prodotto da grande studio: dalla storia brillante all’estetica pirotecnica, dagli ammiccamenti ironici per adulti ai buoni sentimenti, per arrivare infine al più consueto comic relief a quattro zampe. Ciò che rinfresca un copione tutto sommato risaputo è la sua esecuzione, unita a una carica di risvolti slapstick ben conformata alla stilizzazione dell’animazione.
I Mitchell contro le macchine: la sinossi
Katie Mitchell (Abbi Jacobson) è un’adolescente appassionata di cinema che spera di poter lasciarsi alle spalle la famiglia e intraprendere una scuola per filmmaker. Infatti, con l’eccezione del fratellino con l’ossessione per i dinosauri Aaron (Mike Rianda), la ragazza ha sviluppato notevole distacco emotivo dai genitori, ed è ai ferri corti soprattutto con il padre Rick (Danny McBride), che la considera un po’ una nerd outsider.
La relazione padre-figlia è talmente alienata da suscitare sgomento (mentre il ruolo della madre Linda, doppiata da Maya Rudolph è più secondario); ma ben presto ci sarà tempo per la riconciliazione, perché la famiglia si trova alle prese con una rivolta robotica guidata da PAL (Olivia Colman) che ha coinvolto i dispositivi più disparati, da sofisticati androidi ai più innocui smartphone.
Una brillante commedia sci-fi
Il film è stato prodotto da Phil Lord e Christopher Miller, vincitori del premio Oscar al Miglior Film d’Animazione per lo splendido Spider-Man: Into the Spider-Verse, il cui supporto è evidente nell’estetizzazione generale dell’operazione, specie nelle espressioni facciali. La sceneggiatura di Mike Rianda e Jeff Rowe (anche registi) regala perle di comicità mai superficiale (improntata perlopiù sulla gag fisica), e al contempo si dimostra capace di prendere le dovute svolte dark quando richiesto dalla narrazione (l’assedio al centro commerciale, perno di tutto il film).
La componente dialogica è ugualmente ricca e brillante, a partire dalla serie di folgoranti battute su tecnofobia, consumismo e cupidigia che fanno da MacGuffin per una solidissima e verosimile storia sul recupero dell’affetto. L’intento didattico non scade mai nel didascalico, le pagine emotive evitano la melassa e prendono direzioni inaspettate, mentre le ottime performance vocali (nel cast di doppiatori si annoverano pure Fred Armisen, Beck Bennett e Conan O’Brien) danno sostanza al fine dell’intrattenimento. Certamente non un film che sancirà uno spartiacque nell’animazione moderna come fece Into the Spider-Verse, ma un prodotto che nel breve tempo riesce a farsi apprezzare per una sensibilità più sfaccettata.