I ponti di Madison County recensione del film diretto ed interpretato da Clint Eastwood con Meryl Streep, Annie Corley, Victor Slezak, Jim Haynie e Sarah Zahn
“I vecchi sogni erano bei sogni. Non si sono avverati ma comunque li ho avuti”.
Benvenuti a Cult, l’unica rubrica in grado di commuoversi ogni volta che guarda I ponti di Madison County. Siano encomi.
Ho tanti, forse troppi punti deboli. Uno di questi, sicuramente quello più ottenebrante, sono le donne. Lo sono state, lo sono e sempre lo saranno. Non ci posso fare niente: sono stato concepito così. Subisco, patisco e mi sottometto alla loro inesausta bellezza. E, semmai potessi scegliere la donna con cui stare non avrei alcun dubbio: per bellezza Naomi Watts, per fascino Mädchen Amick e per dolcezza e letizia Meryl Streep. Già, perché Meryl è cosi idillica, passionale e romantica che se dovesse calpestare un uomo lo farebbe dolcemente. Difatti è anche una delle attrici cui calza alla massima esemplarità il ruolo di protagonista nei film dell’eletta schiera dei romantici. Dei commoventi. A riprova di ciò le magnifiche interpretazioni ne Il Cacciatore di Michael Cimino (un film non propriamente passionale ma inopinatamente intriso di momenti tristi e malinconici), La mia Africa (opera unica), Innamorarsi, La donna del tenente francese e La scelta di Sophie, grazie alla quale vinse la statuetta come Miglior Attrice Protagonista.
Ma il romanticismo che la Streep emana è talmente inesausto che viene quasi spontaneo amarla anche in pellicole in cui impersona donne da biasimare, come in Manhattan o Kramer contro Kramer. Vederla, perciò, in un film dai risvolti sentimentali straripanti è, di rimando, cosa ovvia e scontata. Altrettanto non lo è per il vecchio, sommo e imperituro Clint. Perché se ci teletrasportiamo indietro nel tempo, nell’anno 1995, anno di uscita del film I ponti di Madison County, e pensiamo alla figura cinematografica di Clint Eastwood, i nostri pensieri vengono catapultati in un caravanserraglio di cowboy, pistoleri, texani dagli occhi di ghiaccio, carcerati, musicisti ubriaconi, militari e poliziotti carogneschi, e tanto ci sarebbe da sogghignare se ci dicessero che invece sta girando un film sentimentale. Ma la grandezza di un’artista è data anche dal suo saper metamorfosare e Clint, dal ’95 in poi, ha saputo deliziarci di perle cinematografiche cangiati.
I ponti di Madison County, basato sull’omonimo romanzo di Robert James Waller, non solo è assoluto antesignano della transustanziazione artistica di Eastwood, ma è una gemma caduta sulle nostre (in)certezze sentimentali, che dipana con maestria e lucidità uno degli argomenti più dibattuti (non sempre bene. Anzi: quasi sempre molto più che male) a livello cinematografico e non, ovvero quello del sentimento verso la persona amata, fornendoci una risposta chiara e ben definita alla domanda che si pongono quotidianamente milioni di persone: l’amore, per germogliare, ha bisogno di tempo?
E’ questo il quesito che si pone inconsciamente e subitaneamente Francesca (una sardanapalesca Meryl Streep), casalinga inghiottita dall’indubbia realtà incessantemente indistinguibile e tendenzialmente plumbea e sonnifera della vita di periferia, dedita unicamente alla faccende di casa o, nel migliore dei casi, alla coltivazioni di fiori o alla degustazione solitaria di tè freddo, nel momento in cui compare nella sua vita un futuro invadente, rappresentato dal fotografo freelance Robert Kincaid (il divino Clint) che, senza neanche volerlo, ne soverchia vita, sentimenti e destino. Un reportage fotografico relativo ai ponti coperti della contea di Madison, nello Stato dell’Iowa, che Kincaid deve ultimare per National Geographic Society, è il fattore scatenante della rapida, vertiginosa alchimia che origina tra i due, grazie alla quale Francesca vede trasmutare un presente lagnoso, “Non è quello che avevo sognato da ragazza”, in cui le sole gratificazioni sono quelle che le vengono date dai figli dopo che assaporano il pranzo da lei cucinato (il marito Richard pare più un automa che un umanoide dotato di sentimenti) in un futuro probabilmente migliore, vivace, dinamico. Tutto ciò lo si evince dalla passione con cui Francesca si lascia andare a cene romantiche, passeggiate e notti d’amore: “Facevo dei pensieri su di lui che non riuscivo a controllare e lui li seguiva tutti. Qualunque cosa provassi, qualunque cosa volessi, lui mi seguiva. E in quel momento tutte le cose che avevo saputo di me stessa fino ad allora, sparirono. Mi comportavo come un’altra donna, eppure non ero mai stata così me stessa prima di allora”.
Ma alla passione consegue spesso un insano principio di dubbio e, per l’appunto, di incertezza, riguardo ai risvolti mistici a cui è probabile andare incontro, poiché “L’amore non obbedisce alle nostre aspettative: è mistero puro e semplice” ed il cambiamento è vissuto più come una minaccia che come giubilo e letizia: “Molte persone temono i cambiamenti… io sono una di quelle che ha paura dei cambiamenti” e, perciò, è più facile abbracciare il reale piuttosto che il plausibile onirico: “I vecchi sogni erano bei sogni non si sono avverati ma comunque li ho avuti”.
La prima pellicola romantica di Eastwood è un inchino sublime all’amore, con pochi simili predecessori (Casablanca, Colazione da Tiffany, Come eravamo) e nessun successore, che catalizza l’attenzione dello spettatore sulla spontaneità delle emozioni e sugli strascichi prettamente sentimentali, senza forzare la mano su trovate sceniche (suicidi e alterchi fisici, per esempio) che spesso vengono introdotte per esacerbare livore e suspense e che invece poco hanno a che fare con tali tipi di pellicole, cosa che è stata fatta con A Star is Born. In tal senso, è geniale l’intuizione di non creare una tenzone tra Robert e Richard, i due ipotetici duellanti nel cuore di Francesca, limitandosi a comparare due mondi diversi e lasciando la discrezionalità di tale scelta non solo a Francesca ma anche allo spettatore, senza creare giocoforza la compartimentazione tra il buono e il cattivo, ma semplicemente tra l’amore e la ragione. Difatti l’automa Richard non viene descritto come il marito brutto, violento e cattivo ma come “Una persona pulita, e anche tante altre cose, lavoratore, affettuoso, onesto e gentile. Anche un ottimo padre”.
Le scene flemmatiche, volutamente indolenti, dell’inizio della pellicola creano un’assonanza inopinabile con l’incedere vacuo dei giorni di Francesca e la monotonia della sua vita, mentre divengono proprio come la vita di un reporter (dinamiche, vivaci e alacri) nel momento in cui entra in scena Robert.
I ponti di Madison County è anche un inno alla solitudine e a tutti coloro che riescono a conviverci senza ansie e frustrazioni di sorta, senza per questo venire etichettati come dei reietti, ma neanche immolati sul gradino più alto dell’olimpo dei compiuti, come dimostra l’ostentato egoismo sordido e gretto di Robert (forse l’unico neo del suo essere perfetto) nel convincere Francesca ad abbandonare la famiglia e scappare via con lui:
– Vieni con me… vieni con me!
– Non mi sembra la cosa giusta.
– Non se lo merita, non ha mai fatto del male in vita sua.
– Non pensi a noi?
Ma anche una punzecchiatura parecchio velata (ma neanche troppo) circa l’edonismo matrimoniale spasmodico a cui la società statunitense protende – lo stesso Clint è stato sposato cinque o sei volte, disseminando frattanto varie amanti – accaparrandosi però poi il diritto di essere la comunità sociale più bigotta del pianeta.
L’ancestrale pensiero secondo cui una donna che prova dei sentimenti per un nuovo diverso dal marito debba necessariamente essere bollata come una baiadera qualsiasi viene soltanto sfiorato – fortunatamente – ad inizio pellicola, nell’istante in cui i figli di Francesca penetrano nello scrigno dei suoi ricordi, l’unico momento, questo, in cui il film scade in una retorica tanto bigotta quanto la comunità statunitense.
I ponti di Madison County cala il sipario tracciando un solco di dissonanze tra la vita vissuta quotidianamente e i capricci subdoli del fato, gli avvenimenti arcani presentati dal destino e i tanti sliding doors pianti e rimpianti (se Meryl non avesse incontrato Clint come avrebbe vissuto? O meglio: se Meryl non avesse incontrato Clint come avrebbe sopravvissuto? E se lo avesse incontrato prima del marito?) ma donandoci però due tangibili certezze: l’amore, per germogliare, non ha bisogno di tempo e le donne sono le creature più splendide del globo terracqueo, e a tutti coloro che perpetrano abusi e violenze su di loro, uomini empi, scellerati, maschilisti e vigliacchi, auguro una sola cosa, ovvero quella di trovarsi in quel preciso momento faccia a faccia con Clint. Ma non il Clint de I ponti di Madison County, ma quello de Gli Spietati, così che possa sussurrare loro: “Allora, sto uscendo. Se vedo qualcuno là fuori l’ammazzo… non ammazzo soltanto lui, gli ammazzo tutti i suoi amici. E poi gli brucio anche la casa. E non azzardatevi più a sfregiare donne! Altrimenti torno e vi ammazzo tutti, figli di puttana!”.
Paolo S.