Ida recensione film di Pawel Pawlikowski con Agata Kulesza, Agata Trzebuchowska, Dawid Ogrodnik, Jerzy Trela, Joanna Kulig e Izabela Dabrowska
È il 1962, e Varsavia fa parte di un mondo in bianco e nero, in 4:3, quadrato, austero, socialista, freddo e dalla doppia faccia. Così decide di rappresentare le vicende del suo quinto film Ida, Paweł Pawlikowski, recentemente rinomato per il suo romantico Cold War (2018), dedicato alla figura dei genitori, vincitore di 6 European Film Awards, un Goya per il miglior film europeo e miglior regia per i giudici di Cannes.
Si è ad un passo dalla presa dei voti per le sorelle del convento ma Anna viene fermata in anticipo e, dopo una chiacchierata con la madre superiora, si convince a mettersi in contatto con l’unica parente che le rimane, la zia Wanda, la quale non si era mai fatta sentire prima. Fatti i bagagli parte per Varsavia e per la prima volta da quando era una piccola fanciulla, Anna vede una realtà completamente diversa, slabbrata, piena di vizi e possibilità, ancora zoppicante a causa dell’impatto della Seconda Guerra Mondiale ma che pian piano si sta risollevando.
Zia Wanda è un giudice sanguinario dalla doppia faccia, una donna di tutto punto sul luogo di lavoro ma che a casa beve troppo, cerca avventure amorose o forse solo sessuali e conduce una vita monotona e deprimente, o forse è lei ad essere depressa e vedere tutto ancor più grigio di quanto la fotografia del film già non faccia.
Insieme cercano i corpi dei genitori di Ida (la nostra Anna si chiama in verità così ed è ebrea da sempre), ma il percorso è lungo e le due non si conoscono affatto; inevitabilmente ci sarà l’occasione di indagare sul proprio passato, confrontarsi e paragonarsi, mettere in discussione le proprie ideologie con sullo sfondo l’ombra del nazismo (ormai passato) che torna a coprire qualsiasi sprazzo di felicità nei ricordi delle due, fatalmente segnati dai decenni precedenti.
Una pellicola da arthouse che gioca di sottrazione, dove le uniche musiche sono quelle classiche dei giradischi di Wanda e del jazz (Naima di John Coltrane, in particolare) del ragazzo incontrato per strada che le inviterà al suo concerto; un film bello ma complicato, magari non per tutti vista la divisione del pubblico, ed è difatti inevitabile non deludere chi si aspettava un insight più approfondito sul tema della religione vista la scelta di un focus maggiore sui personaggi che su una tesi-antitesi religiosa (vedasi Luci d’inverno); i tempi sono dilatati e da cinema classico alla Bergman, Bresson, Tarkovskij, Tarr e mille altri, stili cinematografici che non tutti sembrano amare, se in più si calcola che Ida non ha mai un vero e proprio conflitto interiore assoluto per quanto riguarda l’abbandonare o meno i voti, si è quasi davanti ad una celebrazione del credere, che da una parte può convincere qualcuno, visti gli altissimi punteggi assegnati al film dalla critica, ma che dall’altra fa storcere il naso a chi la guarda con occhi atei come i nostri.
La struttura visiva viene però in aiuto e regala delle bellissime composizioni, in particolare il simbolo della dicotomia Dio-Diavolo, onnipresente in tutti i momenti della vita della protagonista e degli altri e rappresentato attraverso uno spazio completamente vuoto sulle teste dei personaggi schiacciati dal peso del divino ma che nei momenti di conflitto risultano invece bloccati, interrotti da forze nascoste (in più momenti Ida si ritroverà a volersi forse mettere in contatto con Dio, sforzandosi di abbattere le barriere imposte dal regista sulla sua testa, altre volte verrà inquadrata dalle spalle in giù, quasi come se la presenza di Ida e quella del Signore fossero poste in secondo piano, o come a simbolizzare che le sue credenze potrebbero essere state scosse, violate).
Una pellicola breve, anacronistica, particolare e bella, con forse un solo momento di impatto, non un capolavoro come fin troppo spesso si sente dire ma che vale la pena vedere e consigliare, ponderando bene il destinatario in questione.