Il Bambino Di Cristallo recensione film di Jon Gunn con Zachary Levi, Meghann Fahy e Jacob Laval
di Simone Luciani
Il film segue la storia di Scott (Zachary Levi) e Teresa (Meghann Fahy), due genitori che scoprono che il loro figlio Austin (Jacob Laval) è autistico e soffre di osteogenesi imperfetta, una malattia che rende particolarmente fragili le sue ossa. I due dovranno trovare bilancio nelle loro vite, mentre cercano d’imparare a rapportarsi e a capire il giovane Austin.
Il ragazzo di cristallo non ha una vera e propria trama, ma è strutturato in episodi vagamente legati da alcune tematiche. Proprio per questo, nei suoi eccessivi 110 minuti, finisce spesso per assomigliare più a una sit-com che a un film vero e proprio.
Zachary Levi torna sullo schermo con una performance che è difficile persino definire tale. Un’interpretazione vuota per un personaggio che definire abbozzato sarebbe un complimento. Scott non è mosso da intenti né da desideri e, completamente privo di carattere, manca della presenza scenica che ci si aspetterebbe da un protagonista.
Il film vorrebbe offrire una rappresentazione dell’ADHD, ma finisce invece per dipingere accidentalmente una persona con tratti disturbanti: un uomo adulto talmente solitario da portarsi un amico immaginario al pub o persino in vacanza con la famiglia.
I problemi di Scott non vengono in alcun modo attribuiti a un’evidente depressione o a un senso d’impotenza nel controllo della sua vita, ma unicamente all’alcol. Il ragazzo di cristallo promette al pubblico che, per essere felici, non serve un percorso psicologico o cercare varietà nella vita, bensì basta accontentarsi ed essere grati a Dio – una promessa che sembra uscita dalle più estremiste comunità cristiane
Un estremismo che ritroviamo anche nella moglie, Lori, la quale sembra non sapere – anche giustamente – come muovere questo personaggio. Anche lei è completamente priva di spessore, e il suo ruolo di madre sovrasta del tutto la sua caratterizzazione. L’uomo agnostico è quindi triste nella sua libertà di essere una persona oltre il ruolo di padre, mentre la donna cristiana è felice perché interamente immersa nel ruolo di madre.
Questa dinamica familiare si riflette anche nei genitori dei protagonisti. Quelli della donna sono del tutto assenti dalla pellicola, ritenuti irrilevanti, mentre quelli dell’uomo sono costantemente presenti. La madre di Scott è ritratta come la classica anziana chiassosa ma affettuosa, mentre il padre incarna lo stereotipo del nonno saggio e imperturbabile, che sorride con indulgenza di fronte agli eccessi della moglie.
Il ragazzo di cristallo si basa su cliché senza mai decostruirli, spacciandoli per verità assolute. Inoltre, Il film propone una rappresentazione semplicistica e poco accurata delle neurodivergenze
L’autismo di Austin sembra costruito più su ricerche superficiali in rete che su esperienze reali o studi approfonditi. Il personaggio non ha passioni né vere ossessioni, non è mosso da nulla, ma possiede soltanto un’interminabile lista di cose che gli piacciono. La pellicola evita di comprenderlo al punto da escluderlo persino dal ruolo di protagonista della sua storia.
La neurodivergenza viene dipinta come qualcosa di “carino”, portando a situazioni a dir poco surreali e raccontando come essa rappresenti un problema per i genitori, mai per il ragazzo. L’unico elemento di rappresentazione davvero interessante è la sua ossessione per i film, ma anche questo aspetto viene appena sfiorato.
Anche tralasciando le sue discutibili tematiche, il film non si regge in piedi. È un dramma privo di conflitto, in cui le rare risoluzioni arrivano in modo rapido e superficiale. È una commedia che fatica a far ridere e finisce invece per essere derisa, complice un umorismo talvolta poco riuscito. Viene quindi da chiedersi cosa sia Il ragazzo di cristallo al di fuori della sua scialba propaganda.
Una pellicola senza forza, con immagini che non comunicano né appassionano. Il comparto tecnico, pur non essendo visivamente sgradevole, risulta piatto e monotono. Annoiano queste immagini patinate e prive di dettagli, annoiano le musiche prive di carattere, annoia questa macchina da presa svogliata. La cosa che più avvicina Jon Gunn all’essere un vero regista è il suo cognome, perché risulta difficile credere che un artista possa aver davvero lavorato a un progetto simile.