Il cattivo poeta recensione film di Gianluca Jodice con Sergio Castellitto, Francesco Patanè, Tommaso Ragno, Clotilde Courau e Fausto Russo Alesi
Il cattivo poeta è il primo film di Gianluca Jodice, in sala dal 20 maggio distribuito da 01 Distribution.
Ave.
Nel 1937, Gabriele D’Annunzio vive in un buen ritiro nella sua gabbia dorata sul lago di Garda, a Sirmione, nel suo Vittoriale. Circondato da donne, ex amanti e consiglieri, passa il tempo a leggere, scrivere e cercare un modo per far rinsavire Mussolini: slegato da ogni legame con il fascismo, crede di poter fermare il lento ma secondo lui inevitabile declino dell’impero.
Gianluca Jodice dirige un’opera prima ferma e baldanzosa, che contrariamente a quanto potrebbe sembrare non gioca sull’accumulo, se non quello materico del personaggio storico rinchiuso in una reggia malinconica e decadente: e la prova di Sergio Castellitto, come sempre in formissima, sembra far trovare all’attore una dimensione perfetta dove dare libero sfogo alle sue gigionerie, sempre in bilico tra onirismo e grottesco.
Cave.
Diviso in tre capitoli (I topi, Il dissenso, Il buio), Il cattivo poeta vive nel contrasto dei due protagonisti, non tanto specchi riflessi ma ognuno testimone del tempo: discrasia tra passato e presente, difficoltà di accettazione, elaborazione del lutto sono tutti temi che la sceneggiatura riesce a srotolare lievemente in una trama che si accompagna in una coincidenza poetica.
E la bravura di Jodice sta soprattutto nella trasparente ma ineluttabile sovrapposizione tra un passato che non smette di pesare e un presente che smania per liberarsi dalle catene. Il film trova dei puntelli in numerose frasi importanti (abbiamo tutti bisogno di un balcone per recitare: la differenza è che ci sono bravi attori e cattivi attori, e agli italiani piace solo e sempre la cattiva recitazione; o ancora i maestri insegnano quello che non si può imparare da soli), ma stupisce più di tutto l’esattezza con cui fa dialogare l’ambizione filologica con la contemporaneità senza mai risultare stucchevole, didascalico o fazioso.
Il resto lo fa una messa in scena, crepuscolare e soffusa, capace di rappresentare alcuni dei personaggi dell’epoca più enigmatici e controversi senza mai prevaricare l’obiettività: e riesce a farlo grazie alla strana alchimia degli attori con i loro personaggi (su tutti, Tommaso Ragno sempre incredibile, che si trasforma fisicamente in un vero e proprio feticcio Anni Quaranta), efficacissimi in una gestualità stanca e polverosa, fedeli a loro stessi ma insieme vibranti di una forza misterica che pervade la casa.
Da questo punto di vista, è lampante la matrice targata Groenlandia di Matteo Rovere, con il suo bagaglio produttivo che recupera un modo di fare cinema legato al passato, materico, sostanziale, diretto, solido. Dalla fase della scrittura, fino al Vittoriale come teatro di posa, terminando con le architetture fasciste utilizzate come linee prospettiche di regia.
Pave.
Sono tempi dal cielo chiuso, dice D’Annunzio-Castellitto. Parole che suonano come un proclamo, un manifesto per un film che parte dal registro storico per arrivare a rappresentare quasi un horror dell’anima, indugiando in primi piani e non lesinando in esplorazioni di corridoi e stanze in penombra, con stacchi improvvisi ed ellissi drammaturgiche immerse in silenzi carichi di tensione.