Il colore venuto dallo spazio recensione film di Richard Stanley con Nicolas Cage, Joely Richardson, Madeleine Arthur, Elliot Knight e Julian Hilliard
Nella famiglia dei Gardner c’è un bambino che, lungo tutto il film, quasi ogni volta che è in scena è intento a colorare un suo disegno raffigurante gli strani mostri, o meglio ospiti che (solo lui) può vedere nel pozzo di famiglia. In quelle sbavature fuori dal segno, in quei colori che strabordano fuori dalle linee tracciate e conosciute, c’è il senso de Il colore venuto dallo spazio, la metafora che Richard Stanley (leggendario con due soli film, Hardware e Demoniaca – Dust Devil) usa per mettere in scena ciò che non si può rappresentare: l’orrore indicibile, il terrore nascosto, il gorgoglio minaccioso delle creature lovecraftiane che tante volte sul grande schermo in tanti hanno provato a rappresentare, ma – quasi – nessuno mai è riuscito.
Il colore venuto dallo spazio (disponibile in streaming su Sky Atlantic via Now TV) è così, vive nel fuori campo, è un’opera clamorosa (che in pochi hanno saputo capire fino in fondo nel suo valore immenso) che concilia con un equilibrio invidiabile due concezioni di orrore da film, ovvero il rappresentabile da jump scare e il non rappresentabile che invece può solo essere suggerito.
Il film di Richard Stanley vive in questo cortocircuito grazie alla perizia del suo regista, sovrano indiscusso di un sottogenere anni ’90, mostrando gli effetti dell’entità aliena che piomba letteralmente nella tranquilla casa di campagna dei protagonisti: effetti oltraggiosamente devastanti, che lentamente invadono tutto quello che sta intorno al cratere scavato nel terreno, passando indefessamente dalla carne alla vegetazione fino agli oggetti e all’aria pregna di saturazione elettrostatica.
Stanley, pur assente dal cinema da un bel po’, non rinuncia a niente ma riempie il suo film di ogni lettura possibile, senza dimenticare quindi l’apologo politico della società statunitense, inserendosi in quella crasi tra orrore di provincia e marciume di città: e lo fa con levità assoluta, con una narrazione sospesa perfettamente funzionale ai molteplici sottotesti così come allo sviluppo narrativo. Gli eventi vengono scanditi in maniera astratta, per iperboli ed elissi, deviando intelligentemente spiegoni con spunti di logica appena accennati o suggeriti, pagando pegno sia all’incubo carpenteriano sia al body horror situato a metà tra il J-Horror nipponico e la nuova carne di Cronenberg, arrivando ad un -involontario? – insert joke per Stephen King e il suo Creepshow: ed è così che lo stile del regista primeggia, acceso e sospinto dal sacro fuoco dell’horror di atmosfera e irrequieto, visionariamente lisergico nell’immaginare (sempre a bordo fuoricampo) le mutazioni e i mutamenti, il dolore e il disagio.
Certo un ottimo assist glielo offre il suo personaggio principale che ha le fattezze overacting di un Nicholas Cage in formissima, che mentre fa da contraltare alla presenza statuaria di Joely Richardson dispiega perfettamente le trame intrise di occultismo, folklore, stregoneria ed esoterismo che solo in apparenza sembrano inconciliabili con il cinema sci-fi e invece in Color Out of Space si connettono senza sbavature restituendo un film disturbante, intenso, esteticamente perfetto che porta avanti un discorso perfettamente centrato sull’inesorabile consunzione del corpo e del destino umano che corre sui binari della contaminazione e poi sostituzione di un ecosistema con un altro in maniera virulenta e violenta, originata dall’orrore cosmico tipico del genio di Providence.
Perché è proprio dalle pagine di Lovecraft che, come detto in apertura, straborda non solo il colore ma anche un orrore soverchiante, malato e insano. Mai visto così. Che vive, e sopravvive.