Il commissario Montalbano Il metodo Catalanotti recensione ultimo episodio con Luca Zingaretti, Cesare Bocci, Peppino Mazzotta, Angelo Russo, Sonia Bergamasco, Aglaia Mora e Greta Scarano
Il commissario Montalbano è una serie Rai arrivata alla quindicesima stagione, con trentasette episodi all’attivo, tratta dai romanzi di Andrea Camilleri.
Quando un’opera arriva ad un certo livello di notorietà, conseguentemente rimane intrisa nel sostrato non solo culturale ma anche sociale, aprendo dibattiti che spesso vanno al di là dei meriti “semplicemente” artistici.
Ultimo, solo in ordine di tempo ad ora, il caso dell’ultima (?) puntata della longeva e fortunata serie del personaggio del compianto Andrea Camilleri, il ciclo di libri sul celebre Il commissario Montalbano che ha avuto il volto di Luca Zingaretti (e Michele Riondino nella serie prequel Il giovane Montalbano).
Partiamo dal libro, che è sempre il punto d’inizio.
I manoscritti di Camilleri, com’è probabilmente più chiaro nei – bellissimi – romanzi storici, hanno sempre corso su un doppio binario: l’indagine poliziesca (a sua volta dipartita in più sottotrame che alla fine mirabilmente si intrecciavano in maniera arguta) e quella antropologica. Caratteristica che già emergeva dall’uso insistito del dialetto siciliano, a volte astruso, a volte allegro, sempre in linea con i personaggi, con lo stile, con l’approfondimento umano dello scrittore.
Allo stesso modo, Il metodo Catalanotti mescola impegno civile e passione: complice la circostanza di essere poi il terzultimo della serie (ad oggi, in tv, mancano le trasposizioni degli ultimi due romanzi, Il cuoco dell’Alcyon e Riccardino), il romanzo mostra senza via di scampo come l’essere umano sia animato esclusivamente dalla passione, e nessuno ne è libero, nemmeno l’eroe protagonista Salvo Montalbano. Può essere la passione per l’arte e il teatro, così come la passione amorosa o la passione civile, perché nel libro il nostro, oltre ad indagare su un misterioso duplice omicidio, segue anche le vicende di una coppia di disoccupati che lottano per vedere riconosciuto il loro diritto ad un futuro attraverso il conseguimento della più grande forma di libertà, il lavoro.
Eppure anche dietro la morte di Catalanotti c’è la passione civile: l’individuo, oltre ad essere una specie di filantropo del teatro, era anche un usuraio implacabile che portava l’abitudine ai soprusi anche sul palcoscenico. Nel Metodo, Montalbano mostra (probabilmente più che negli altri titoli che lo vedono protagonista) la vulnerabilità dell’essere umano, la fragilità propria della finitezza dell’uomo, esposta come una ferita fresca e più dolorosa. Quando una passione domina l’animo è facile farsi distrarre da tutto il resto, a torto o a ragione: ed è una riflessione quanto mai appropriata anche in senso metaletterario, perché così come è calzante per i personaggi che si muovono tra le pagine, lo è ancor di più per l’autore. Un Camilleri che si sa aver avuto sempre un debole per il teatro, lui allievo in gioventù dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, sempre lui che ne Il metodo Catalanotti non può nascondere una vena a tratti stanca, con una struttura a volte macchinosa tra inserti di stampo teatrale, qualche esercizio di stile e inattese citazioni di Neruda e Szymborska.
Incredibilmente (o forse no), gli stessi problemi del libro si riflettono nel film diretto da Zingaretti. Certo la scomparsa del regista storico, Alberto Sironi, insieme a quella dell’autore Camilleri e dello scenografo Luciano Ricceri, avrebbero dovuto essere un segnale inequivocabile di una fine imminente, che si avvicina inesorabile anche con la fine, già richiamata, del materiale originale: peccato che dopo due decenni di amore incontrastato tra pubblico, critica e opera, Il commissario Montalbano sembra salutare il suo pubblico con l’episodio non certo migliore, anzi forse proprio il peggiore di una delle serialità Rai più importanti degli ultimi decenni. Peccato, o anzi no: vedere una regia accurata ma inevitabilmente acerba (quella di Zingaretti) semplificare ancora di più romanzi già di per sé minori fa diminuire il dispiacere di una quanto mai probabile chiusura – anticipata pur se di due soli episodi -, perché chiaramente la mancanza di esperienza e di professione da parte dello stesso interprete dall’altra parte della macchina da presa ha pesato anche sul precedente La rete di protezione, e a niente sono servite le sceneggiature del sempre brillante Francesco Bruni. E si che nel Metodo ci sono tutti i temi/ossessioni di Camilleri: l’amore che muove il mondo, il teatro come eterno dilemma di memoria pirandelliana sullo sdoppiamento dell’io e sullo scivolamento della realtà nella fantasia, la vecchiaia che insegue la giovinezza, la tragedia che impregna la Sicilia e i suoi abitanti.
Insomma, quasi un compendio del Montalbano/Camilleri pensiero: che nella puntata trasmessa sulla Rai fa bella mostra di sé, e che porta a casa un lavoro tutt’altro che sciatto o mediocre. Il problema è che da Salvo Montalbano siamo stati un po’ tutti abituati ad aspettarci il meglio, e niente di meno che il massimo era quanto aspettarsi legittimamente dall’epilogo della saga. Senza dubbio Il metodo Catalanotti diverte e appassiona, mescolando nella maniera unica dello scrittore siciliano commedia e tragedia, con la sua bella trama gialla anche se meno appariscente del solito, macchinosa ma non arzigogolata e quindi leggermente telefonata, con quel mirabile gioco di specchi (esistenziale e poliziesco) che purtroppo si mostrano ormai appannati.
E tornando da dove eravamo partiti: sembra falsato infine, per non dire inutile, il dibattito social sul finale dell’episodio, che vede la bella poliziotta interpretata da Greta Scarano far perdere la testa al collega Zingaretti, dire di preferire la carriera all’amore e poi scendere dal treno che la porta via dalla passione e dare una possibilità alla nuova storia d’amore. Che peraltro sembra soppiantare quella vecchia, con la storica (e diciamolo, sempre odiosa) fidanzata Livia lasciata da un assordante silenzio telefonico.
Se allora il fandom più fedele insorge per contorni inessenziali di trama e supposti messaggi antifemministi, forse è allora davvero il tempo di chiudere il commissario di Vigata e lasciare godere a Salvo la sua meritata pensione.