Il potere del cane recensione film di Jane Campion con Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Jesse Plemons, Kodi Smit-McPhee e Thomasin McKenzie
Raccontare l’America selvaggia dei rancher vuol dire incorrere in un immaginario abbondantemente scolpito dalla cultura americana, vasto come le praterie che lo definiscono. Colori, suoni, usanze, addirittura i materiali sono dati acquisiti per chiunque senta anche solo nominare il vecchio West visualizzando immediatamente distese di grano, cavalli, stivali e tenute in legno scurissimo.
Thomas Savage ci è letteralmente cresciuto e nel 1967 lo ha fatto diventare l’humus su cui poggiare il romanzo western Il potere del cane. Jane Campion lo ha amato alla follia e ha avuto il compito di trasformarlo in cinema per riportarlo all’attenzione di tutti e presentarlo, in anteprima mondiale, alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia.
Phil (Benedict Cumberbatch) e George (Jesse Plemons) sono fratelli e proprietari di un ricco ranch delle aree interne a stelle e strisce. Diametralmente opposti ma profondamente legati, sono costretti a “separarsi” a causa del matrimonio di George con una vedova del posto (Kirsten Dunst) e il conseguente trasloco a casa insieme al figlio, Peter (Kodi Smit-McPhee) del precedente matrimonio.
Un evento che turba l’ordine costituito, sgretolando certezze e rapporti per permettere alla vita di continuare a fare il suo corso.
Innovare, all’interno di un canone, è uno sforzo che comporta molti rischi. La storia dei fratelli Burbank ha un portato psicologico che cuoce a bassissima temperatura con diversi passaggi da seguire. Il nucleo del film, rappresentato dalle misteriose dinamiche del non-detto, è ammantato da un’azione così simile a quella del quotidiano da non sembrare cinematografica. La vacuità che viene comunicata già dagli ambienti e dai paesaggi di un Montana aspro è espressione di dinamiche relazionali crude e violente che investono una porzione dimenticata di terra in cui è facile rimanere soli con se stessi.
Sembrerebbe un successo. Cast di prim’ordine, fotografia di un certo livello, colonna sonora su misura, ma la superficie de Il potere del cane è spigolosa anche se ben fatta e prima di poter andare oltre si viene facilmente respinti.
Il lavoro della regista neozelandese sull’essenzialità narrativa vorrebbe che fosse la composizione a parlare più che i suoi personaggi. Vorrebbe che tutti, come Phil, intravedessero il cane che abbaia disegnato dalle colline su cui affaccia il ranch per raggiungere i significati latenti del film. Sembra più un caso di pareidolia, lì in fondo ci sono soltanto delle bellissime rocce.