Il ragazzo e l’airone recensione film di Hayao Miyazaki in anteprima italiana alla 18° edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione Alice nella Città
Partiamo dai fatti. Il ragazzo e l’airone si apre con il risveglio burrascoso di Mahito nella notte in cui il bombardamento di un ospedale da parte degli Alleati toglie la vita a sua madre, che lavora lì come infermiera. Il ragazzo segue il padre in campagna, perché presto dovrà essere impiegato in una della fabbrica dove vengono prodotte le strutture delle cabine di pilotaggio degli aerei da combattimento.
Fuori città Mahito fa la conoscenza di sua zia Natsuko che è in realtà la sua matrigna ed è incinta del suo futuro fratello o sorella. Il ragazzino è triste, solitario, non accetta la nuova situazione e tutto ciò, non fa che aumentare il suo senso di disagio in un ambiente nuovo e sconosciuto.
Sarà qui che apparirà l’airone cenerino indicato nel titolo, così iniziano a separarsi i livelli di realtà del fantasmagorico mondo di Miyazaki. L’airone – elemento molto presente nella tradizione giapponese in quanto capace di attraversare acqua, aria e terra – è la guida e il passepartout in un viaggio attraverso quello che, in tempi di blaterati universi cinematografici, è una biosfera contenente l’impossibile.
È difficile essere più precisi, ma nel momento in cui Mahito attraversa un passaggio nascosto in una vecchia torre sembra che Miyazaki si trasformi in Jules Verne per andare alle radici del suo cinema.
Toshio Suzuki, uno dei produttori, ha dichiarato che Miyazaki ha posticipato il ritiro per lavorare ad un film-regalo per suo nipote quasi a dire: “Il nonno passerà presto all’altro mondo, ma ti consegna questo film”.
È difficile, quindi, non leggere in quell’anziana figura intenta a mantenere stabile il mondo attraverso l’equilibrio di 13 blocchi il riflesso dell’uomo che ha attraversato e segnato, nel bene e nel male, un’epoca che avverte il disastro imminente a cui egli stesso ha contribuito, cercando qualcuno che possa raccogliere il testimone per evitare che il mondo vada in frantumi.
Mahito è la speranza o la vittima che deve raccogliere i cocci? Rappresenta l’erede di un artigiano che ha paura che il suo sapere vada disperso o la nuova linfa vitale che garantisca la continuità del ciclo?
Sono alcune domande, ma non le uniche, che attanagliano lo spettatore. Parte leggermente avvantaggiato chi ha già assaggiato la filmografia del creatore dello Studio Ghibli, ma il codice di Miyazaki è ben lontano dall’essere univoco.
Basta pensare ai pellicani o agli spiriti Warawara o alle figure umane che popolano gli altri mondi, per non parlare dell’esercito di pappagalli. È una continua formazione in itinere a suon di quesiti esistenziali, molto più personali che universali con i quali si può interagire o rimanere indifferenti. Lo spettatore rimane piacevolmente cullato da una cura visiva e una fluidità d’animazione – frutto di un lavoro impegnativo da parte di tutti gli animatori coinvolti.
Il ragazzo e l’airone è il tassello che infila in quella vecchia e decrepita torre il corpus di un autore che ha definito un immaginario con gli occhi sul viale del tramonto. Che si tratti dell’ultimo film o meno è il momento di tornare a Tokio e capire come affrontare quello che abbiamo davanti e fare i conti con un futuro tutt’altro che roseo.
Il ragazzo e l’airone è a tutti gli effetti un film testamento, ma anche il racconto poetico di una crescita, che diviene al contempo una presa di coscienza di una perdita, individuale e collettiva.