Il Signor Diavolo recensione del film di Pupi Avati con Gabriele Lo Giudice, Filippo Franchini, Cesare S. Cremonini, Alessandro Haber, Chiara Caselli, Gianni Cavina, Lino Capolicchio e Andrea Roncato
Il Signor Diavolo è un sentito ritorno alle origini del regista Pupi Avati, nato nel 1938 a Bologna e salito al successo con il “giallo padano” La casa dalle finestre che ridono del 1976. Nei suoi oltre cinquant’anni di carriera – la sua opera prima, Balsamus, è del ’68 – Pupi Avati è stato un regista per sua stessa ammissione “abituato a stupire”, versatile nello spaziare attraverso i generi: eppure, nonostante il successo di pubblico e di critica ottenuto da pellicole come Il cuore altrove, Il papà di Giovanna o Il cuore grande delle ragazze, il suo nome è rimasto sempre legato al cult del ’76 e all’horror Zeder del 1973, co-sceneggiato con Maurizio Costanzo.
Dopo alcune difficoltà produttive che lo avevano portato a lavorare per cinque anni in televisione e che hanno afflitto anche la realizzazione de Il Signor Diavolo, con la sua ultima opera, tratta dal suo omonimo romanzo pubblicato da Guanda l’anno scorso, Pupi Avati ritorna alle ambientazioni che lo hanno reso celebre, gli stessi territori in cui è cresciuto. “Più invecchio più ritorno all’infanzia”, ha confidato. Il Signor Diavolo, ambientato nel Basso Veneto del 1952, è intriso di quella secca religiosità precoinciliare che caratterizzava le messe della sua infanzia, dove lui serviva da chierichetto. Il diavolo del titolo è il diavolo combattuto dalla Chiesa cattolica, presente nella pellicola in molteplici emanazioni: al termine della scarsa ora e mezza di film si ha l’impressione che il male sia ovunque, abile ad insinuarsi e a stringere in una morsa i protagonisti.
Il film prende il punto di vista dell’ispettore ministeriale Furio Momenté (Gabriele Lo Giudice al suo primo ruolo di spicco), mandato nel Nord Est dal governo DC per evitare troppo clamore intorno a un processo che rischia di coinvolgere uomini e donne di chiesa. In treno, Furio legge i verbali dell’interrogatorio di Carlo (Filippo Franchini), poco più che bambino, reo confesso dell’omicidio di Emilio (Lorenzo Salvatori, splendidamente inquietante), un adolescente deforme figlio di una ricca nobile veneta, interpretata da Chiara Caselli. Via via che la narrazione del ragazzino procede, emergono dettagli sempre più sconcertanti: diverse volte Carlo fa riferimento alla dentatura suina del ragazzo assassinato, considerato dalla fantasia popolare un indemoniato che dieci anni prima aveva sbranato a morsi la sorellina. Una volta arrivato sul posto Carlo sarà presto assorbito in una spirale di orrori.
Il film è di indubbia qualità, sotto diversi profili. La scelta dei volti degli attori è perfetta: accanto ai protagonisti emergenti, in ruoli minori appaiono storici collaboratori di Avati come Lino Capolicchio, Alessandro Haber e Gianni Cavina, capaci, con le loro espressioni, il loro accento, il loro aspetto, di storicizzare perfettamente il film, e di renderlo incredibilmente più verosimile. A tratti il film ricordava alcuni elementi delle opere di Federico Fellini (la tabaccaia, il matto e i paesaggi di Amarcord) e di Pier Paolo Pasolini (l’omicidio del deforme Pistoletta verso la fine del romanzo Ragazzi di vita): ma più che di citazioni dirette queste mi sembrano ricordi comuni fra cineasti e scrittori vissuti in luoghi vicini a poco più di quindici anni di distanza.
Con fierezza Pupi Avati rivendica per sé la definizione di “film gotico”, secondo lui abusata: il film gotico è un film che “ha a che fare con la sacralità, e la sacralità è un elemento dell’immaginario con cui mi sono formato”, e che emerge prepotentemente in questa ed altre opere. Più che al Bene però Avati rivolge lo sguardo al Male, “oggi più che mai all’opera”: e riconosce una certa sacralità al Male, il bisogno di rispettarlo che lo stesso sacrestano (Cavina) insegna ai bambini del catechismo intimando loro di parlare non del “diavolo”, ma del “signor diavolo”. “Era quel male che volevo raccontare, quel male che muore e si rigenera in una infinità di vite nuove e imprevedibili”, scrive Pupi Avati nelle note di regia.
L’horror di Avati, un horror atipico fra gli horror contemporanei, si distingue per come in esso il male, e il conseguente terrore, permei ogni cosa: non c’è mai una scena spaventosa in senso letterale; ogni immagine del film, la cui fotografia è curata dall’apprezzato Cesare Bastelli, è permeata da un senso di cupezza e da orrore incombente. Per questo motivo disturba il finale, tanto banale e frettoloso da sembrare essere stato creato solamente per soprendere. A parte il finale, e un uso non del tutto ponderato delle musiche, c’è ben poco da biasimare a Pupi Avati e al fratello Antonio, produttore.
“È una provocazione fare un film di genere in Italia”, ha riconosciuto Pupi Avati, che al pari del fratello non si è mostrato del tutto convinto di un’uscita estiva per il film. “Oggi gli autori parlano di sé e dei loro problemi quotidiani”, senza sublimare il loro mondo personale in una narrazione fantastica: per Avati in questo caso l’horror è stato l’unico modo per raccontare l’inquietudine di un male che dilaga. Il risultato è di buona fattura e, pur avendo una distribuzione nelle sale un po’ sottotono rispetto ai tempi d’oro di Avati, meriterebbe di riscuotere una certa attenzione, in quanto film italiano diverso e – per quanto diretto da un regista ottantenne – innovativo nel panorama cinematografico del nostro paese. In attesa di agosto, non possiamo che augurare il meglio.
Ludovico