Il tempo che ci rimane recensione film di Elia Suleiman con Saleh Bakri, Elia Suleiman, Menashe Noy, Samar Tanus e Yasmine Haj
Un’estetica dell’immagine sensibile e raffinata, dialoghi quasi azzerati e un uso sapiente del tempo cinematografico fanno de Il tempo che ci rimane un film che una volta visto ti resta dentro. Diretto nel 2009 da Elia Suleiman, che si ispira alla storia della sua famiglia, questo interessante autobiopic si snoda in quattro parti ognuna delle quali rappresenta un periodo della storia palestinese e della vita del regista.
Nella prima parte, che si svolge durante la guerra arabo-israeliana del 1948, il regista descrive le gesta del padre Fouad (Saleh Bakri), combattente della resistenza palestinese, che lascia il segno nell’educazione del figlio il quale più di una volta a scuola descrive nei suoi temi gli Stati Uniti come un Paese imperialista e colonialista.
Il giovane e taciturno Elia cresce e nei capitoli successivi viene raccontata prima la sua infanzia, poi la sua adolescenza, sempre accanto al coraggioso papà e alla premurosa mamma. Tutti i capitoli sono intrisi di un’ironia tragicomica che traspare delle innumerevoli gag di cui lo stesso regista è protagonista, che ricordano il cinema di Buster Keaton, uno dei più famosi maestri del cinema muto classico.
Suleiman infatti decide di utilizzare l’arma del silenzio come espressione di ribellione nei confronti di un governo che lo ha costretto ad emigrare e a vivere parte della sua vita in esilio. Elia, sia bambino che uomo, non parla mai, ascolta, osserva e non si esprime mai a parole, ma con gesti e azioni che sono molto più loquaci e comunicativi.
Durante l’opera si percepisce una forte nota di malinconia, accentuata da una sensibile fotografia firmata Marc-André Batigne, che il regista cerca di stemperare con umorismo intelligente e sarcastico. Quasi tutto viene descritto con sottile ironia ne Il tempo che ci rimane, dalle semplici scene di vita quotidiana a quelle più intrise di significato, come quella, tra le più esemplificative del suo particolare stile, in cui lo stesso Elia scavalca con un’asta il muro che gli israeliani hanno costruito per emarginare i palestinesi.
Suleiman, quindi, anche in questo film si affida al genere narrativo comico-grottesco, già sfoggiato in altre pellicole tra le quali il pluripremiato Intervento divino (2002), pellicola con cui si è aggiudicato il Gran Premio della Giuria a Cannes. Presentato al Festival di Cannes 2009, Il tempo che ci rimane racconta, in modo delicato e ironico una questione ancora molto aperta e irrisolta come quella del conflitto israelo-palestinese, che disorienta e spacca spesso l’opinione pubblica nonché il popolo che lo subisce. La scena finale, in cui il tassista di Elia si perde tra le strade di Nazareth a causa di un forte temporale, è l’emblema di questo smarrimento, che solo chi perde la sua terra può comprendere.