Il verde prato dell’amore (Le Bonheur) recensione film di Agnès Varda con Jean-Claude Drouot, Marie-France Boyer, Claire Drouot e Marcelle Faure-Bertin
Battezzata prima La mère, e successivamente La grand-mère de la Nouvelle Vague, Agnès Varda fu l’unica donna in una corrente cinematografica del tutto maschile. Quest’etichetta l’ha sempre fatta ridere: la sua libertà d’espressione, infatti, non la fece mai accostare a nessun tipo d’etichetta. Tra l’altro, Agnès addirittura anticipò la Nuova Onda, con il suo La Pointe Courte, nel 1954. Esso arrivò qualche anno prima che si sentisse parlare di Godard, Truffaut o Rivette, ma al suo interno si scorgono già dialoghi, inquadrature e tecniche di montaggio che ritroveremo da lì a poco.
Al Festival di Cannes del 2012, nel corso di un’intervista, la regista rivelò il suo pensiero a posteriori sulla Nouvelle Vague:
«È il nome dato da Françoise Giroud a questo pacchetto di giovani registi dotati che, dal 1960 al 1970, hanno creato film capaci di stravolgere il cinema. A volte mi chiamano “la nonna della Nouvelle Vague” e mi piace, perché ho iniziato fin dal 1954. De sacrés auteurs sont sortis de ce bouillonnement! Tout le monde s’est réveillé après nous.»
“Sacri autori sono nati da questo ribollimento! Tutto il mondo si è risvegliato dopo di noi.”
Ha ragione Agnès, il cinema si è risvegliato, liberato e trasformato. Era impossibile non vedere cosa stesse succedendo al cinema in quel periodo: stava diventando un mezzo d’espressione, un linguaggio. Non più un mezzo per conservare delle vecchie immagini o una mera attrazione, ma uno strumento per esprimere il pensiero, l’interiorità e le ossessioni dell’artista. Liberandosi dalla tirannia del visuale, dell’immagine per l’immagine, esso dava voce ai sottili e sublimi rapporti tra i personaggi: le parole dette e quelle non dette, i gesti fatti e quelli accennati, lo sguardo e l’assenza d’esso.
L’articolo “Naissance d’une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo”, del critico cinematografico francese Alexandre Astruc, pubblicato nel 1948 su L’Écran français, profetizza la nascita di un nuovo cinema, nel quale l’autore/regista avrebbe scritto con la sua macchina da presa come uno scrittore fa con la sua penna: «L’auteur écrit avec sa caméra comme un écrivain écrit avec un stylo». Nel cinema, come altrove, non c’è nessun’altra possibilità se non quella dell’avvenire. Come sottolinea ancora Agnès «Demy, Godard, Truffaut, Chabrol, Resnais, Marker et moi, c’est un peu extravagant, mais c’est la vérité dans cette période précise».
Un po’ stravaganti, ma la verità in quel preciso periodo. Agnès e la sua pura stravaganza ci mancano ormai da due anni. A 90 anni compiuti, Agnès era una donna instancabile: con il suo caschetto bicolore, le sue vesti dalle tinte violacee, circondata sempre dai suoi gatti, spinta dalla sua inesauribile voglia di stare tra i giovani e sentirsi a suo agio con loro. Continuò a sponsorizzare i suoi film ovunque, fino alla fine, come testimonia il suo ultimo post Instagram, pubblicato solo dieci giorni prima della morte.
Le opere della Varda si costituiscono partendo dall’impurità ontologica del cinema stesso, rispettando il duplice sguardo della macchina da presa: lo sguardo sul reale e la sua reinvenzione fantastica. È impossibile imporre delle categorie al suo cinema, come è impossibile e non desiderabile, sciogliere i nodi che uniscono la ripresa documentaria a quella finzionale. Agnès ha sempre dichiarato quanto fosse attratta dalla gente comune e quanto volesse partire da lì per creare un’immagine veritiera dell’umanità, fatta di incontri e sensazioni. Una cine-écriture tipicamente Vardiana è quella di Cleo dalle 5 alle 7 – Cléo de 5 à 7, suo secondo lungometraggio, dove il tempo della storia finzionale corrisponde perfettamente al tempo reale. Precede Cléo, il suo primo lungometraggio La Pointe Courte, girato nel 1954 con un budget minimo, pochissimi mezzi e, soprattutto, grazie alla partecipazione gratuita della popolazione della Pointe Courte, piccolo villaggio nei pressi di Sète. La Pointe Courte, oltre ad avere il merito di anticipare il “far cinema” della Nouvelle Vague, affronta temi che verranno sviluppati nel successivo Le Bonheur: “Ci amiamo davvero o viviamo insieme per abitudine?” “Un giorno ho visto negli occhi degli altri quello che chiamiamo il nostro amore. L’ho visto folleggiare mentre gli altri lo brandivano”. Un amore secco come un vecchio fiore d’arancio, un amore messo sotto vetro, analizzato e protetto, ma arrivato dopo anni ad essere l’amore degli altri e non più il loro.
Nel 1954, Agnès aveva visto pochissimi film, ma era convinta che il cinema si fosse arenato e chiuso in una gabbia di falsità, perdendo così il contatto con la realtà e aggirando i problemi più cruciali dell’esistenza. La struttura del film è il tempo necessario che serve ai due innamorati per ricercare una soluzione: l’alternarsi ritmato delle riprese degli abitanti del villaggio e i dialoghi dei due, è una presa a distanza necessaria non solo per arrivare lentamente ad una soluzione, ma anche per farci comprendere quanto le problematiche siano vaste e profonde. Philippe Noiret e Silvia Monfort sono dei François e Thérèse che scelgono un’altra soluzione allo stesso identico problema: “Abbiamo perso la gioventù dell’amore. L’emozione, la scoperta, il desiderio, la passione. Ma l’amore adulto basato sulla conoscenza è una passione. Più come l’amore materno che nulla può distruggere”. Questa presa di coscienza di Silvia è precisamente il salto di qualità che manca ai due giovani genitori in Le Bonheur, un piccolo passo in più che si concretizza in un salto che riempirà il solco che il tempo ha scavato tra due, ormai vecchi innamorati.
In una fragile bolla di Bonheur
“Perché gli uomini si comportano come alberi. E se osservi gli alberi da vicino, per un certo tempo, noterai che anche loro cambiano, come gli uomini. Tutti sono rimpiazzabili, si dice, ed è vero, ma solo in termini di funzioni di una persona. E così per ogni singolo albero. Unico e soggetto a cambiamento. È questa la natura.” Agnès Varda
In un estivo e soleggiato campo di girasoli, due bambini, accompagnati dalla mano dei loro genitori, vestiti con completi abbinati, avanzano verso di noi: questa è la prima inquadratura di Le Bonheur, un film che spietatamente indaga sulla costruzione e distruzione di un microcosmo famigliare. L’ultima inquadratura del film riprende la stessa famiglia felice, ora in un bosco autunnale, tappezzato da foglie morte, l’unica differenza è che la donna non è più la stessa. È naturale sembra voler dire Agnès, tappezzando la casetta di vasi in fiore: è semplicemente la ciclicità della natura, i fiori sbocciano, vengono colti e abbelliscono le case, essendo però inesorabilmente destinati ad appassire.
Le Bonheur o l’adattato titolo italiano Il verde prato dell’amore è la storia di una famiglia che abita a Fontenay-aux-Roses, che in realtà, non è il villaggio idilliaco immerso nella natura che la Varda dipinge, ma un sobborgo dell’Île-de-France. François è il padre, fa il falegname, lo vedremo spesso alle prese con seghe, legni e pitture; Thérèse è una sarta casalinga, lavora nella sua casa, cucendo vestiti da sposa e ripagandosi con inviti ai matrimoni. I due sono sposati e hanno due figli: Gisou e Pierrot, bambini perfetti, non fanno capricci, mangiano e dormono anche in improvvisate tende nei boschi. Nei primi venti minuti del film assistiamo ad un susseguirsi di magiche immagini: due giovani innamorati, con due bambini adorabili, attraversano boschi fioriti e vanno a trovare gli zii.
François torna a casa prima dal lavoro, ad aspettarlo i suoi figli e Thérèse, la quale ascolta le richieste di una ragazza prossima alle nozze accompagnata dalla madre: “Sei già qui?” esclama sorpresa Thérèse, “Che benvenuto!” ironicamente controbatte François, “Volevo dire che è bello vederti così presto.” risponde ancora Thérèse. “Vedi, Yvette, come bisogna parlare al marito!”, si insinua così nella conversazione la madre, la quale esorta la futura sposa a trattare l’uomo con il quale si sposerà, proprio come fa Thérèse con François. Thérèse incarna dunque la moglie perfetta: sempre bella e curata, lavoratrice ma anche madre amorevole, madre di famiglia ma anche moglie che non dimentica le giuste attenzioni da dare al suo uomo. Cosa potrà mai turbare questo meraviglioso quadro dai toni caldi e saturi?
L’invadente estetica del grazioso, cela un disagio profondo, anticipato magistralmente dal montaggio concettuale della Varda: un montaggio parallelo tra François che si reca alle poste e il corteggiamento dei due leoni ci svela il pericolo, la tentazione alla quale il padre di famiglia sarà sottoposto. L’incontro con Émile, giovane e bella donna che non ha nulla da perdere, è per François l’inizio di un ménage a trois, nel quale si troverà perfettamente a suo agio: François è l’uomo dai non rimorsi, dalle non conseguenze, dalle non preoccupazioni. L’ecosistema del film inizia ora a seguire i naturali ritmi del protagonista maschile, il perno dominante; egli non avrà infatti il minimo problema a confessare alla moglie la presenza di un’altra donna: “È semplice sai, tu io ed i piccoli siamo come un frutteto. Poi noto un melo che cresce fuori del campo e fiorisce con noi. Sono dei fiori in più, dei frutti in più.” È un aggiungere, non un sottrarre, una legge naturale per François: “Io non prendo niente a te, vedi?”. Thérèse sembra accettare la proposta con una sconcertante serenità, la quale crea fastidio nello spettatore, un disagio quasi insopportabile. I due giovani fanno l’amore per celebrare una relazione rivoluzionaria, libera, dove la parola possesso non sembra esser concepita.
Thérèse si risveglia e va via, lascia il marito e i suoi figli che la reclamano dopo il riposino. François la cerca, per poi ritrovarla senza vita. Lo scoppio è invisibile nella testa della donna, non fa rumore, non ha colore, è una cruda e silenziosa presa di coscienza: Thérèse si accorge in un solo momento della sua schiavitù, della duplicazione, della sostituzione e della sua oggettificazione.
Il verde prato dell’amore – Le Bonheur diventa un film selvaggio, brutale che mostra allo spettatore, senza mezzi termini, le componenti oscure della normalità, il disordine che si cela al di sotto della brillante superfice del decoro. I fiori diventano funesti presagi: non sono più dentro i vasi sui tavoli, ma al funerale della donna; non sono più simbolo di fertilità e riproduzione, ma di morte. Quella della giovane è una morte shakespeariana, Thérèse è un’ Ofelia del ’64. La scossa colpisce tutti, e soprattutto gli spettatori di sesso maschile, la Varda li smaschera: tutti i privilegi dei quali godono vengono scoperti e non restano impuniti.
François pensa d’aver raggiunto un’insolita libertà, alla quale per qualche minuto crediamo anche noi: lo spettatore si ritrova a credere che questo non sia altro che uno dei mille modi della natura, senza pensare come il diritto preteso da François possa ledere e ferire la libertà altrui. La Varda ha l’autorità di consumare il suo peccato fino alla fine, mantenendo un tono naturale e semplice, facendo emergere il mistero in piena luce: François ricomincia la sua vita con Émile, la quale prende totalmente il posto di Thérèse.
Il film si conclude come è iniziato: la nuova famiglia dai completi abbinati si allontana verso il fuori campo.
È François un personaggio immorale?
Agli occhi di molti, François potrebbe apparire come un personaggio immorale, menefreghista ed egoista ma in realtà il personaggio della Varda, tenendo conto di tutta l’analisi appena conclusa, va analizzato molto più profondamente. Egli, infatti, non ha nessun desiderio di far male e non ha neanche coscienza di provocarlo; François è il puro, l’eccessivamente ingenuo, è il candido che vede l’amore come una questione di addizione: più siamo e più amore ci sarà. La risoluzione dell’enigma del personaggio, e anche dell’intero film, si ritrova in una frase di Déjeuner sur l’herbe, commedia francese di Jean Renoir, che risuona nella cucina dello zio: “Le bonheur, c’est peut-être la soumission à l’ordre naturel.”