Indiana Jones e il quadrante del destino recensione film di James Mangold con Harrison Ford, Phoebe Waller-Bridge, Mads Mikkelsen, Toby Jones, John Rhys-Davies e Ethann Isidore
Jürgen… sei tedesco. Voi non sapete essere spiritosi.
(Harrison Ford in Indiana Jones e il quadrante del destino)
Steven Spielberg è stato estremamente generoso quando ha dichiarato che pensava di essere l’unico in grado di girare questi film – la saga di Indiana Jones – ma che James Mangold lo ha sorpreso e reso orgoglioso con il suo operato nel dare vita al quinto ed ultimo capitolo della saga, Indiana Jones e il quadrante del destino. Purtroppo l’effetto Logan non si è ripetuto, e sia il regista candidato a due premi Oscar per Logan e Le Mans ’66 che la superproduttrice Kathleen Kennedy hanno dimostrato ben poca sensibilità, attenzione e visione verso la leggenda che si accingevano a riportare per l’ultima volta sullo schermo e, persino guardando dentro casa, in Paramount, non hanno compreso la lezione di Top Gun: Maverick.
Le leggende non vanno toccate: James Mangold aveva affermato di sapere bene come trattare i franchise intoccabili, eppure non è riuscito né ad imprimere una sua visione né ad omaggiare degnamente la saga dell’archeologo più famoso del mondo. Speravamo che la nostra Elisa fosse stata eccessivamente severa durante la recensione in anteprima da Cannes 2023, ma purtroppo Indiana Jones e il quadrante del destino fa rimpiangere amaramente Steven Spielberg e George Lucas.
James Mangold dovrebbe spiegarci anzitutto perchè Harrison Ford ad ottant’anni è un iron man che percorre sessanta kilometri al giorno in bicicletta, segue una dieta vegetariana priva di latticini, vola pilotando i suoi stessi aerei e rischiando la morte, gioca a tennis, corre, svolge da bravo ex carpentiere tutti i lavoretti di casa ed esegue i suoi stunt al cinema, ma Indiana Jones settantenne deve necessariamente diventare uno ferrovecchio che non riesce più a scalare una parete di roccia e deve cedere il passo alla figlioccia, mostrandosi un pensionato da compatire, un vecchio uomo solo ed insicuro che sembra aver perso i suoi punti di riferimento, le sue passioni ed emozioni e l’inarrestabile fuoco dell’esplorazione e dell’avventura. Henry Jones Sr. in Indiana Jones e l’ultima crociata non era forse un esempio più che sufficiente per trovare la giusta rotta e dare una chiave di lettura dignitosa all’epilogo di una delle saghe più amate della storia del cinema?
La sceneggiatura dello stesso Mangold con Jez e John-Henry Butterworth, ereditata da David Koepp e Jonathan Kasdan (quest’ultimo non accreditato), soffre di un profondo sbilanciamento tra la costruzione della narrazione ed il suo frettoloso, banale epilogo, dimostrando poca attenzione verso le peculiarità dei suoi protagonisti, prestando scarsa importanza ad alcune scelte e soluzioni narrative liquidate come se nulla fosse, sprecando il potenziale di alcuni personaggi come Teddy (Ethann Isidore), alla fine mero emulo di Shorty in Indiana Jones e il tempio maledetto.
E no: non assistiamo ad una pellicola all inclusive ostentatamente in salsa girl power, non c’è alcun passaggio di cappello, e Phoebe Waller-Bridge con la sua Helena non ha in alcun modo “rovinato”, anzi, il nostro Indiana Jones, per quanto veder quasi scomparire Indy dallo schermo o vederlo soffrire un eccessivo accompagnamento da parte della sua figlioccia non ci abbia certamente esaltato, senza contare che sul finale sia Harrison Ford che Phoebe Waller-Bridge si arrenderanno mostrandosi abbastanza disorientati sul da farsi.
James Mangold ci ha dato il fragore togliendoci l’epica, ci ha illuso con gli effetti speciali – per quanto in The Irishman abbiamo visto di meglio in termini di de-aging degli attori – dimenticandosi le emozioni, ci ha regalato citazioni ma soltanto a basso costo, graditi ritorni riducendoli a comparsate. Ma soprattutto non ha saputo valorizzare i suoi protagonisti principali – anche se ad Harrison Ford, Phoebe Waller-Bridge, Mads Mikkelsen e Toby Jones nulla può essere imputato – li ha addirittura contraddetti e si è quasi del tutto aggrappato al bellissimo prologo ambientato nel passato, dedicato alla leggenda del treno d’oro nazista ed ereditato sembra dallo script di Jonathan Kasdan.
Se in Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo la tematica aliena, i prop utilizzati e la deludente prova di Shia LaBeouf avevano contribuito a tracciare un divario invisibile ma innegabile nei confronti dei primi tre capitoli, Indiana Jones e il quadrante del destino ha smarrito l’identità del suo leggendario eroe, e con essa il significato più profondo della saga, provando che non può esistere Indiana Jones senza Spielberg e Lucas.