Inside Out 2 recensione del nuovo film Disney e Pixar di Kelsey Mann con le voci di Pilar Fogliati, Deva Cassel, Marta Filippi, Federico Cesari, Sara Ciocca e Stash [Anteprima]
Se sul piano prettamente biologico e chimico possiamo dire di aver compreso con una certa precisione la struttura del nostro cervello, è il funzionamento delle emozioni a rimanere un terreno impervio, in merito al covare certezze scientifiche potrebbe risultare quantomeno prematuro.
Solitamente ciò che non si conosce tende a suscitare timore e fascino in egual misura. È proprio questa “lacuna” dello scibile che dieci anni fa permise a Pixar Animation Studios di concepire un prodotto dalle premesse tanto semplici quanto geniali. L’espediente narrativo alla base del primo Inside Out suscitò immediatamente simpatia negli spettatori più giovani, ma anche genuino stupore in chi li aveva accompagnati in sala senza alcuna pretesa.
Oramai è piuttosto risaputo come i prodotti più preziosi sfornati dall’azienda fondata nel 1923 da Walt Disney non siano quelli semplicemente provvisti di trame efficaci, né tantomeno quelli più sofisticati sul versante tecnico, ma, per lo più, quei prodotti dotati di molteplici chiavi di lettura in grado di accarezzare con grazia le corde emotive di diverse fasce di età.
Una virtù in grado di giovare agli autori sia nel breve termine, in quanto a risposte della critica, ma soprattutto di assicurare alla pellicola quella necessaria longevità contenutistica, che permetta ad un giovanissimo spettatore di approcciarsi ad una seconda visione anche a decenni dal primo incontro con il film, con la certezza di poter carpire nuovi spunti e riflessioni dal lungometraggio in questione.
Nel corso degli ultimi anni, la sensazione è che il nuovo corso della Disney abbia fatto più attenzione al risultato nel breve termine, concentrando le proprie energie sulla facile adulazione del pubblico più giovane.
Un approccio che, se da una parte non ha penalizzato eccessivamente gli incassi dell’azienda – dato che l’acquisto del doppio biglietto è comunque assicurato dalla presenza di almeno un accompagnatore, a prescindere dal fatto che quest’ultimo apprezzi o meno il prodotto proiettato – dall’altra ha certamente allontanato adolescenti e giovani adulti dall’animazione firmata Disney.
Non a caso risulta a dir poco complicato individuare lungometraggi usciti negli ultimi anni che siano entrati stabilmente nell’immaginario collettivo.
Considerando che il primo capitolo di Inside Out può certamente vantarsi di essere stato uno degli ultimi prodotti sfornati da Disney-Pixar in grado di valicare con disinvoltura le barriere anagrafiche, era quantomeno legittimo aspettarsi che il suo sequel potesse affrancarsi da questa spiacevole tendenza assunta dall’azienda di Topolino, recuperando almeno in parte quella preziosa stratificazione drammaturgica che sancì il successo del primo capitolo.
Se nella precedente iterazione la nostra protagonista era costretta a fare i conti con il trauma di un trasferimento con annesso trasloco, questa volta gli autori ci catapultano nel passaggio di Riley dall’infanzia all’adolescenza.
Universalmente conosciuta come una vera e propria tempesta di suggestioni a cui è difficile rimanere indifferenti, l’adolescenza ha permesso alla sceneggiatrice e al regista di introdurre una serie di emozioni all’interno del quartier generale già conosciuto nel primo capitolo: Ansia, Imbarazzo, Noia, Invidia e Nostalgia si uniranno ai già conosciuti Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto.
Gestire un repentino raddoppio delle emozioni in gioco rappresenta un’ardua sfida, tanto per Riley quanto per gli equilibri narrativi della vicenda.
Con dieci emozioni a schermo, il rischio di imbattersi in una controproducente parzialità era davvero dietro l’angolo ma, almeno stavolta, i ragazzi di Disney-Pixar conseguono nuovamente quella pregiata capacità di centellinare a regola d’arte la caratterizzazione di ogni elemento inserito in sceneggiatura.
Il delicato lavoro che le dieci emozioni dovranno affrontare, a differenza di quanto avvenuto in precedenza, sarà quasi esclusivamente rivolto al rapporto di Riley con i propri coetanei e, di conseguenza, con la società.
Ecco che la delicata e attenta indagine svolta nel primo capitolo si popolerà di temi e dinamiche sensibilmente più articolate, sintetizzate brillantemente nei soli 96 minuti necessari a consumare la vicenda.
Nel tentativo di comunicare la bontà della rappresentazione, appare necessario far riferimento ad un prezioso espediente narrativo adoperato in fase di sceneggiatura: lo sport.
Sia in termini squisitamente narrativi che di messa in scena, lo sport svolge un ruolo di primaria importanza fungendo da metafora esistenziale ma anche, e soprattutto, da vero e proprio fulcro drammaturgico del lungometraggio.
Il risultato è un film d’animazione che torna ad essere qualcosa di più rispetto ad un mieloso tentativo di distrarre per un paio d’ore milioni di bambini.
Inside Out 2 riconquista quella sofisticata trasversalità di intenti ed esiti in termini contenutistici, che di recente il cinema d’animazione pareva aver tragicamente smarrito.