Intervista ai fratelli Pupi e Antonio Avati in occasione del Love Film Festival
In occasione della decima edizione del Love Film Festival a Perugia dal 27 al 30 giugno abbiamo avuto il piacere e l’onore di poter intervistare due pilastri del cinema italiano i fratelli Avati: Pupi Avati e Antonio Avati.
Vi lasciamo qui sotto all’intervista completa.
In dialogo con Pupi Avati:
- Se non fosse stato un regista, cosa avrebbe voluto essere. Aveva il cosiddetto piano B?
Il mio sogno era quello di diventare un musicista, ma non avevo il talento sufficiente per diventare un musicista significativo e questo l’ho scoperto quando, facendo parte di un gruppo di jazz che ha suonato in tutta Europa, mi son trovato a suonare con delle persone estremamente talentuose e ho capito che quello che riuscivano a fare loro io non sarei mai stato capace di farlo. Quindi ho dovuto rinunciare.
- Nella sua corposa produzione cinematografica è passato dall’horror, al gotico, al thriller, alla commedia e al drammatico. C’è ancora qualche altro genere cinematografico nel quale non si è ancora cimentato e vorrebbe cimentarsi?
No, non ci sono altri generi in cui non mi sono cimentato e nei quali vorrei cimentarmi, perché l’unico genere che non ho praticamente frequentato è il western, dato che non ho alcuna passione per i western. Quindi, i film che ho fatto rappresentano, nella loro interezza e diversità, tutto il cinema che avrei voluto fare. Non sono frustrato dal fatto di non aver potuto fare un certo genere, perché quelli che mi piacevano li ho fatti tutti.
- Ha mai rifiutato progetti importanti per dedicarsi a qualcosa di più personale?
No, assolutamente no. Sono una persona che, grazie a molti sacrifici, insieme a mio fratello che è anche il produttore dei miei film, è riuscita ogni anno a realizzare il film che voleva fare. Quindi non ci sono film nel cassetto che avrei voluto fare e non sono riuscito a realizzare; fortunatamente li ho fatti sempre tutti.
- Considerando che ad oggi si contano solo le sue e altre piccole produzioni, come reputa lo stato di salute del cinema horror italiano?
Non esiste praticamente più, lo teniamo in vita io e pochissimi altri. La grande stagione del cinema gotico e horror italiano si è conclusa alla fine degli anni ‘70 ed è stata soppiantata, non si sa bene come, da cinematografie straniere. Forse le nuove tecnologie hanno permesso agli stranieri di ottenere effetti che hanno reso questo genere fantasy più apprezzato. Adesso fare un film come L’orto americano, che ho completato, un film thriller, e gotico, è un gesto di fiducia e di coraggio. Mi auguro che induca molti miei colleghi più giovani a provarci perché il film gotico nero è una grandissima palestra che insegna veramente il cinema.
- Come considera questa nuova tendenza, che in realtà c’era già ai suoi tempi, di introdurre la politica nel cinema horror o comunque degli elementi politici?
A volte, quando non sono forzati, funzionano bene; altre volte risultano un po’ pretestuosi. Quando riescono a delineare meglio un’epoca o un periodo, aggiungono verità a scene che altrimenti non ne avrebbero. Le rendono più quotidiane e, quindi, più spaventose. La politica è un elemento che respiriamo ogni giorno della nostra vita ed è importante per il genere a cui alludiamo. Dobbiamo cercare di rimanere il più possibile aderenti alla realtà.
- Visto che ha citato L’orto americano, ci dica cosa dobbiamo aspettarci dal suo nuovo film?
L’orto americano è una storia che da un certo punto diventa impossibile, cioè totalmente improbabile. Tuttavia la bellezza del cinema sta nel riuscire a rendere credibile l’inverosimile. Si parte con la storia normale di un ragazzo che va in America per scrivere un romanzo e dopo pochi minuti ci si accorge che gli sta accadendo qualcosa di così singolare da sembrare. Lui ha come punti di riferimento questa sua vicenda umana basata sull’incontro casuale con una ragazza che ritrova negli Stati Uniti dove va ad abitare. Nonostante la vastità degli Stati Uniti, si ritrova nell’appartamento contiguo con quello della ragazza che aveva conosciuto precedentemente. Questa storia, che inizia in modo improbabile, fa diventare possibile questa vicenda. Il cinema ha la capacità di rendere verosimile l’inverosimile.
- Questo nuovo film appare dunque come un gioco dove lo spettatore deve cogliere i segreti dietro “l’orto” e quelli celati dietro il personaggio principale. Un po’ come ha fatto Paul Schrader in un qualche modo nel suo penultimo lavoro, Il maestro giardiniere. E’ d’accordo con tale affermazione?
Si è un gioco, ha ragione a definirlo tale, perché da quel momento lo spettatore è autorizzato a immaginare e a credere a qualunque cosa. Una volta accettato come possibile l’incontro del ragazzo con la ragazza, dopo tanti anni e al di là delle distanze, il film una sorta di magia. Questo autorizza addirittura la poesia, permettendo ai due personaggi di vivere insieme in modo poetico. Credo che una cosa del genere non sia ancora successa nel cinema italiano.
- Visto che lei parteciperà al Love Film Festival con la presentazione di Dante, uno dei suoi ultimi film. Volevo chiedervi com’è stato lavorare su una figura così importante come Dante?
Volevo raccontare agli studenti il mio incontro con Dante, che inizialmente è avvenuto in modo repulsivo a causa della scuola. La scuola ha fatto di tutto perché odiassi il sommo poeta, presentandolo come distante anni luce, letterario e difficile; inoltre, ci chiedevano di imparare i suoi versi a memoria. Poi in un momento della mia vita mi sono trovato ad entrare in connessione con Dante. Volevo approfondire la sua figura da autodidatta, studiando ciò che non avevo appreso da ragazzo. Volevo capire perché figure classiche come la sua avessero lasciato dietro tracce così notevoli. Attraverso la lettura della sua ‘Vita Nova’, un diario scritto da lui giovanissimo, ho scoperto aspetti che rispecchiavano le storie d’amore della mia adolescenza. Questo mi ha stimolato a interessarmi sempre di più a Dante, fino a scoprire il viaggio di Boccaccio alla ricerca della figlia di Dante, molti anni dopo la morte del poeta.
Mi è sembrato che raccontare Dante in questo modo potessi renderlo seducente, contrariamente a quello la scuola aveva fatto con me che aveva fatto di tutto perché io non lo apprezzassi. Ho cercato di rendere la sua figura accessibile malgrado i suoi eccessi, la sua follia e di poter scrivere questa sceneggiatura molto ambiziosa.
In dialogo con Antonio Avati:
- Sul set ha mai litigato con suo fratello Pupi?
Noi litighiamo quasi tutti i giorni, discutiamo per questioni legate al lavoro, decisioni e idee non condivise sono all’ordine del giorno. Tuttavia, essendo diventato ormai un’abitudine, una parte integrante della nostra quotidianità e della nostra vita, così come litighiamo facilmente, altrettanto facilmente facciamo pace, a volte senza nemmeno accorgercene. Quindi quando litighiamo e vediamo che il problema era stupidaggine, lo riteniamo in tutti i modi superato.
Tra di noi non c’è mai un vincitore o comunque uno che ha ragione per forza. I bisticci ormai sono così quotidiani che ci fanno sembrare molto I ragazzi irresistibili, che era una famosa commedia portata al cinema da Walter Matthau e da George Burns vincitore anche di un Oscar. Per concludere si può parlare di litighi classici che coinvolgono anche le famiglie, come accade nella stragrande maggioranza delle volte.
- Com’è stato coprodurre Berlinguer ti voglio bene?
Berlinguer ti voglio bene l’ho prodotto insieme a Gianni Minervini con la società Avati-Minervini tramite l’aiuto di mio fratello Pupi, ma siccome era ed è un regista non firmò il film anche come produttore. Quindi il film l’abbiamo prodotto io e Minervini che era stato un nostro socio e che purtroppo ora non lo è più da tempo.
L’idea di produrre un film con Roberto Benigni è stata mia. Ho conosciuto l’attore tramite il distributore Euro International Film che lavorava con noi e il direttore commerciale Piero Grancini mi fece assistere allo spettacolo Cioni Mario, un monologo recitato interamente da solo da Benigni e diretto da un regista che sarebbe diventato uno dei più grandi nel mondo del cinema italiano, Giuseppe Bertolucci. Benigni tenne uno spettacolo pomeridiano che, a mio parere, fu eccezionale al Teatro Alberichino, dedicato praticamente solo a me e ai pochi presenti: mio fratello Pupi, Minervini e Grancini, responsabile della distribuzione del film. Alla fine dello spettacolo rimasi molto entusiasta non solo della sua performance come attore, ma anche come autore di un testo si sgangherato però allo stesso tempo piacevolmente sopra le righe e Fui io a cercare un modo per finanziare il film, che alla fine venne sostenuto tramite amicizie private.
Purtroppo quando uscì in sala Berlinguer ti voglio bene andò malissimo, ebbe dei risultati economici assolutamente disastrosi. Per fortuna però non ci era costato molto anche se non ci abbiamo fatto alcun guadagno, alla fine della fiera siamo stati comunque contenti di averlo realizzato. Benigni ogni tanto, nonostante i suoi corposi impegni, ci dedica sempre delle belle parole, insomma è riconoscente di come abbiamo lavorato con lui.
- Lei ha diretto un unico film al momento, ma negli anni non gli è mai venuta la voglia di passare nuovamente dietro la macchina da presa?
L’unico film che ho diretto non è considerabile nemmeno completo, essendo un episodio parte di un lungometraggio collettivo intitolato Sposi uno dei quali è stato diretto anche da mio fratello Pupi. Il mio episodio aveva come protagonisti Nik Novecento e Simona Marchini. Successivamente, ne ho realizzato un altro, un film di montaggio intitolato Kolossal – I Magnifici Macisti
In questo film abbiamo selezionato tutti gli spezzoni più spettacolari o involontariamente comici di quei lungometraggi che nell’ambiente romano venivano chiamati sandaloni. Così, io e Piera Agabutti, un’assistente al montaggio, abbiamo passato mesi a rovistare tra le bobine della cineteca nazionale in una moviola, imbastendo il posizionamento di varie sequenze. Alcune di queste non abbiamo potuto utilizzarle perché era molto difficile risalire ai diritti. Realizzammo un film con ambizioni personali e una critica bonaria ed affettuosa verso quegli ingenui spettatori, attori e autori che mettevano in scena questi incredibili soggetti.
Ne è risultato, in un certo senso, un ibrido. Una curiosità, ancora attuale, è che il testo dello speaker, la voce fuori campo che unisce tutte le sequenze e le rende più assurde e comiche in certi momenti, era di Maurizio Costanzo, un nostro caro amico che scriveva soggetti e sceneggiature con me e Pupi, e che si prestò ben volentieri a fare la voce off.
- Come considera ad oggi la produzione italiana del cinema horror?
Io francamente sono ignaro della produzione horror italiana. Se invece mi chiede di parlare di qualche regista di successo, a parte Soavi che credo sia fermo da un bel po’, e Lamberto Bava, che abbiamo fatto esordire noi con “Macabro”, posso menzionare Dario Argento, di cui conosco poco le ultime produzioni e che, secondo la critica e il pubblico, non sono state considerate dei grandi capolavori.
Per quanto ci riguarda, possiamo dire che continuiamo a praticare l’horror, il gotico padano come viene denominato da certi giovani critici, perché ci piace e perché in passato ci ha dato grandi soddisfazioni. Pensate che un titolo come La casa dalle finestre che ridono ha ancora una vita enorme davanti a sé, avendo quasi più successo adesso a livello internazionale di quanto ne ebbe quando fu prodotto nel lontano 1976.
- Lei crede che possa esserci una rinascita del cinema di genere italiano?
Sì, io nutro sempre la speranza, però ho qualche dubbio. Il cinema italiano di oggi mi sembra che abbia come obiettivo passare dalla televisione, considerata molto più difficile e competitiva, alle piattaforme. Essendo un modo di diffondere il prodotto alla portata di tutti, dai ragazzi agli anziani, un genere come l’horror, se è giustamente esagerato negli effetti truculenti e in quelli che vogliono infondere paura nello spettatore, credo che non sia troppo adatto ad essere acquisito e finanziato dalle piattaforme.
In conclusione, non ho una grande fiducia, a meno che non si tratti, forse, di un horror d’autore come nel caso del nostro ultimo film, che deve ancora uscire. Se trattato in maniera molto personale e con delle componenti molto spiazzanti, simili a quelle del finale di “La casa dalle finestre che ridono”, potrebbe essere apprezzato a prescindere dal genere
Colgo l’occasione a questo punto per parlare di un film come Dante e della nostra esperienza in Umbria durante la sua lavorazione, che è stata una cosa indimenticabile poiché abbiamo ripreso dei posti che nemmeno gli stessi umbri hanno riconosciuto o riconoscono. Tra l’altro vorrei ringraziare la regione, il sindaco in modo particolare per la collaborazione e per la grande ospitalità che ci è stata fornita ovunque. Se il film ha ottenuto i risultati che ha avuto per un film italiano sono stati molto buoni e che ancora adesso si sta promovendo molto bene all’estero, tralasciando il fatto che viene proiettato da tutti gli istituti italiani di cultura nel mondo e anche grazie alla regione Umbria, al comune di Perugia e alla possibilità fornita da tutti questi enti locali di camminare liberamente, di scoprirli anche attraverso alcuni location manager assolutamente all’altezza della situazione.
- E quindi è d’accordo con l’idea che il film Dante non sia la classica rappresentazione biografica di un personaggio storico italiano?
No, Dante non è un film che vuole rappresentare come un testo che puoi trovare su un bignami biografico o su un libro di storia o di letteratura. La chiave di lettura con Boccaccio, che deve percorrere in terza persona tutto l’itinerario della vita del sommo poeta, è stata l’idea di voler essere proprio un film e non uno sceneggiato televisivo, come si chiamava una volta, dove si raccontavano vita, morte e miracoli del poeta limitandosi a seguirlo.
Il nostro film è per assurdo quasi un thriller, con risvolti nel racconto quasi mai inventati, sempre ben documentati che fanno sì che ci sia una modernità dell’espressione, del soggetto, del trattamento. Questo lo ha reso diverso fortunatamente da quanto si aspettava il pubblico e la critica.
Siamo andati in tutte le scuole d’Italia dove è stato proposto ovunque; insomma è diventato quasi come un libro di testo, un documento sicuramente importante che ci ha elevato a livello culturale. Tra l’altro, il film ha attirato l’attenzione del Presidente della Repubblica, che è venuto a vederlo all’Auditorium di Via della Conciliazione nell’anno in cui è uscito insieme al Presidente del Senato, al Presidente della Camera e a tutti i ministri. Questo ci ha reso molto orgogliosi e ripeto grazie anche all’Umbria.
Qui vi lasciamo il trailer al film Dante: