Jojo Rabbit recensione del film di Taika Waititi con Roman Griffin Davis, Thomasin McKenzie, Scarlett Johansson, Sam Rockwell, Rebel Wilson, Alfie Allen e Stephen Merchant
Jojo Rabbit: recensione in anteprima – La storia la scrivono i vincitori. Un’affermazione sensata, efficace, sensazionale, ma non per questo necessariamente vera. Con il senno di poi, sembrerebbe più consono affermare che la storia la scrivono i superstiti, vincitori o vinti che siano. Certo, l’ordine mondiale segue altre vie, quelle percorse e imposte da chi ha il coltello dalla parte del manico, ma la storia, la “vera” storia, trova sempre il modo di tornare alla luce. Lo fa in diversi modi. Attraverso testimonianze, documenti secretati, studi approfonditi, ricerche riguardanti le dinamiche geopolitiche che si sono susseguite nei secoli. Tutto ciò trova ancora maggior risalto nella nostra società contemporanea. Una società di massa, guidata da una politica di massa e istruita da una comunicazione mediatica di massa. È certo che molto di ciò che succede e che è successo venga nascosto al nostro sguardo, ora più che mai estremamente critico, ma è anche vero che le “tenaglie” delle potenze mondiali abbiano alleggerito notevolmente la presa sulla libertà delle masse.
La censura continua la sua discesa vertiginosa verso l’oblio di un passato già dimenticato e nuovamente ricordato; la libertà di parola non sembra avere più alcun freno, ormai fuori dal controllo di tutto e tutti; i media, pur restando in parte ancorati a una tradizione dalle fondamenta di ferro (senz’altro estremamente arrugginite), portano la storia e le storie del mondo agli occhi di un pubblico affamato di verità e cultura. Nel cinema c’è chi lo fa alla “vecchia maniera”, con film estremamente impostati, a tratti ingessati, guidati a comando dalla voglia di raccontare la storia per “come è andata veramente” (anche se la propaganda è un mostro duro a morire; un’idra dalle mille teste); c’è chi intravede nella metafora la vera fautrice della storia umana; e poi c’è chi trova modo di ridere e far ridere raccontando di avvenimenti del passato attraverso l’unica forma di libertà veramente pura fornita alla cultura di massa: la satira. Quest’ultima è senz’altro la strada meno battuta, ancora sterrata e sconnessa a causa dei pochi che hanno scelto di percorrerla, ma resta una delle più interessanti proprio perché ricerca la verità nella risata, nella battuta allo stesso tempo grossolana e ricercata, nell’iperbole senza restrizioni. Nell’eccesso, riesce a raccontare eventi e sentimenti meglio di molte altre forme di comunicazione che hanno provato a sviscerare le medesime situazioni.
Nel cinema dell’ultimo decennio la serietà è stata alla base dei racconti bellici, che hanno iniziato nuovamente a fioccare, come cenere che cade dall’involontariamente torvo cielo estivo (al giorno d’oggi, le similitudini con la neve sembrano avere poco senso). Si rimane a bocca aperta, quindi, trovando dinanzi ai propri occhi un film come Jojo Rabbit, diretto da una grande promessa del cinema odierno, Taika Waititi, e con un cast coronato da nomi quali Scarlett Johansson e Sam Rockwell. Il trailer lasciava sperare per il meglio, strappando qualche risata. Ma non eravamo affatto preparati a quanto avremmo assistito. E, con tutte le probabilità, non lo sarete neanche voi.
Jojo Rabbit ci porta “sul fronte nemico”, in una Germania nazionalsiocialista sull’orlo del collasso dove la fedeltà del popolo al Führer è ancora alta e viva. In questo clima di conflitto mondiale e orgoglio nazionale, Jojo, un bambino di dieci anni, è pronto a tutto pur di provare la sua aderenza spassionata all’ideologia del regime. Tanto che sogna di diventare la guardia del corpo di Hitler, che, per il momento, è solo il suo amico immaginario (interpretato, tra l’altro, dallo stesso Waititi, che regala così anche una performance straordinaria, oltre che una regia impeccabile, dalle tendenze pittoriche). Esattamente come fecero Rossellini e alcuni dei suoi “colleghi” neorealisti, la macchina da presa scende al livello dei bambini, che ci fanno strada in un mondo brutale, profondamente malato, dilaniato dal conflitto, interno prima che esterno.
Ovviamente, a differenza degli esponenti del cinema italiano del dopoguerra, Waititi utilizza quel potente strumento che è la satira per condire la “sua storia” di momenti esilaranti, esageratamente stereotipati. Tutti elementi che, però, fanno tornare alla mente la verità insita in essi, ovvero quella propaganda di regime che demonizzava le “razze inferiori”, inventando leggende riguardanti i propri nemici, ed esaltava, al contrario, la “superiore razza ariana”, coronata dalla figura mitologica, ai limiti della divinità, del Führer. Cosa che facevano, tra l’altro, (certamente in diverso modo a seconda delle necessità) anche le altre potenze che hanno preso parte al conflitto. Non solo una nazione alimentata dalla menzogna, ma un mondo intero. Questo fa capire che Jojo Rabbit non è stato realizzato in modo superficiale, “tanto per fare scalpore”. È una satira estremamente conscia, ben dosata, mai offensiva, sempre geniale. La ricerca forsennata e meticolosa che ha portato alla realizzazione del film è evidente sin dai primi minuti. C’è un’attenta ricostruzione (molto più che esagerata in certi punti) di un momento storico da sempre visto con una certa serietà, nonché ripetutamente mostrato dal punto di vista dei vincitori, i “liberatori”, che hanno “provato” la loro bontà d’animo e la loro propensione alla libertà spaccando definitivamente il mondo in due parti.
Il fatto di mostrare il punto di vista del perdente, raramente messo in scena, attraverso l’ironia e la risata potrebbe far pensare a una minore importanza e serietà riservata a quest’ultimo rispetto alla controparte, quella che marcia gloriosa per le strade, non in catene. Ma la forza del film giace proprio nel suo “prendere sul serio scherzandoci su”. Si ride pensando, cosa che di rado capita oggigiorno sul grande schermo. Stranamente, il modo di raccontare adottato da Waititi e collaboratori è molto più efficace di quello utilizzato da svariati altri autori che hanno messo in scena temi affini.
Jojo Rabbit presenta una forza dirompente che travolge e coinvolge in una storia fittizia ma vera, viva, spaventosa. Si ride della paura, e lo si fa piangendo. Un po’ come fece il maestro Benigni con il giustamente acclamato La vita è bella (1997) o come ha recentemente fatto Armando Iannucci con il superbo Morto Stalin, se ne fa un altro (2017). Con l’unica (e vitale) differenza che l’ecletticità e la “pacata follia” di Waititi raggiunge picchi sperimentati solo di rado dai due esponenti appena nominati.
Il film è creatività allo stato puro. Dalle performance, alla regia, alla fotografia, alla scenografia, al comparto sonoro. Ogni elemento presente nel film è fuori luogo eppure estremamente pertinente. L’accuratezza storica lascia spazio all’esaltazione mitologica, in una danza ipnotizzante ed estremamente vitale tra realtà e menzogna.