Kadaver recensione film di Jarand Herdal con Gitte Witt, Thomas Gullestad, Thorbjørn Harr, Maria Grazia Di Meo e Gjermund Gjesme disponibile su Netflix
Nel futuro distopico e post-apocalittico di Kadaver la popolazione delle grandi città è costretta a muoversi per la strada a cercare cibo e rifugio. Leonora ha un marito e una figlia: e non le sembra vero quando una sera trova, al centro città, un lussuosissimo hotel il cui proprietario, Mathias, offre una cena a prezzo modico con incluso uno spettacolo teatrale. Ma non è tutto oro quello che luccica, così come la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni: lo scopo di Mathias è ben lontano dalla beneficenza, mentre a sua insaputa Leonora porterà la sua famiglia in un incubo assoluto e senza via di fuga.
Alla sua opera seconda, disponibile su Netflix, il regista Jarand Herdal mette a fuoco la sua poetica e porta avanti le sue suggestioni visive già spiegate nel suo esordio Everywhen fin troppo modesto: le ambizioni rimangono alte, ma Kadaver ha risultati più accesi e un risultato molto più affascinante.
E nonostante il film risenta fin troppo delle atmosfere di una certa wave francese, con Delicatessen capofila e con le saturazioni cromatiche tipiche del duo Jeunet/Caro, alla fine quello che viene fuori è un’opera originale e accattivante, autonoma nel suo procedere lungo i binari del grottesco che, partendo dal mood di dramma, tocca abissi horror quando non addirittura gore. Quello che convince maggiormente, in Kadaver, è la possibilità di utilizzare una trama dal sapore di già visto per suggerire molteplici letture e sottotesti, non ultimo l’interessantissimo confronto/scontro di significato tra attore e spettatore.
Le maschere, simbolo e presenza costante nel racconto, sono il segno dell’annullamento dell’individuo ma anche del labilissimo confine tra vita e morte, finzione e realtà, simulacro e verità: l’idea più forte del film sembra quindi essere proprio la sovrapposizione tra realtà e rappresentazione, mentre si sovrappongono perfettamente la fame cannibalica dell’attore e dello spettatore, ognuno pronto a divorare e compenetrarsi nell’altro – lavorando sul delicato intreccio meta-cinematografico. Senza dimenticare di essere anche una satira tagliente, centrata e allusiva sui peggiori impulsi dell’umanità, dall’homo homini lupus al mors tua vita mea, passando per panem et circenses.
Herdal ha comunque il merito di impregnare ogni sequenza di un’atmosfera torbida e strisciante, facendo ampio uso del perturbante con diverse diramazioni psicologiche e strizzando continuamente l’occhio al cinefilo più incallito: guizzanti intuizioni visive si fondono perfettamente con echi dal citato Delicatessen, da 2022: I Sopravvissuti e ovviamente l’immaginario psichedelico e ambiguo di Lewis Carroll con il suo Alice nel Paese delle Meraviglie, facendo un lavoro di fino sui colori e sul loro significato, sulle ambientazioni e su una location immersiva e claustrofobica.