Intervista a Karim Aïnouz, regista di La vita invisibile di Eurídice Gusmão, nelle sale italiane dal 12 settembre, durante l’incontro al Festival di Venezia 76
Aïnouz: “Deserto rosso è uno dei miei film di riferimento”
Vincitore nella sezione Un Certain Regard con La vita invisibile di Eurídice Gusmão, distribuito in Italia dal 12 settembre, Karim Aïnouz è stato scelto per rappresentare il Brasile nella corsa agli Oscar 2020 per il Miglior Film in Lingua Straniera. Lo abbiamo incontrato a Venezia in occasione della 76esima edizione della Mostra, dove è stato chiamato a ricoprire il ruolo di Presidente della Giuria del progetto 28 Times Cinema per l’assegnazione del GdA Director’s Award. Un’occasione per parlare del film ma anche per discutere del suo amore per il grande cinema italiano e della scena brasiliana.
Cannes, Venezia, l’opportunità di rappresentare il Brasile nella corsa agli Oscar 2020: come descriveresti questo particolare momento?
È un momento molto felice per la mia vita. Sono stato orgoglioso del premio ricevuto a Cannes perché ha rappresentato un riconoscimento a 15 anni di supporto alla scena cinematografica brasiliana. Io ho fatto parte di una generazione che ha contribuito a far ripartire quel cinema e credo che questo sia un momento strategico per cominciare di nuovo. Ricevere un premio in un festival così prestigioso, cosa che accade di rado, ha portato una grande gioia, quasi come se avessimo vinto la Coppa del Mondo. Ovviamente la notizia relativa agli Oscar mi ha entusiasmato molto il primo giorno ma, in seguito, mi ha messo grande pressione perché mi sono reso conto della responsabilità che sta dietro a tutto questo. Sono comunque molto soddisfatto, al settimo film ho ottenuto dei riconoscimenti che sono un’iniezione di energia impareggiabile.
Parlando del film, ho trovato che il messaggio principale stia nella maggiore importanza riservata all’amore rispetto alla classe sociale. Pur avendo due vite quasi opposte, le due sorelle trovano la felicità grazie alle persone che le amano.
Quello che mi interessava realmente in questo progetto, in rapporto ai personaggi, era proprio il concetto di solidarietà. È una storia molto semplice che ha a che fare con la condizione delle donne nel tempo. È un film in cui è sicuramente centrale l’amore e che racconta come questo sentimento sia correlato alla situazione sociale in cui le due protagoniste vivono.
Ho trovato molto interessante l’uso del colore all’interno del film. È come se fosse funzionale a quanto si vuole dire. Che ne pensa?
Una delle cose che amo di più nel girare un film è che richiede precisione. In realtà, non lo sono molto e proprio per questo mi spinge a oltrepassare i miei limiti. Sono poi interessato all’eccesso, non amo la monotonia. Proprio per questo motivo ho utilizzato dei colori che si adattassero alla vitalità dei personaggi. Non ho mai avuto il timore di esagerare perché voglio arrivare non tanto alla mente degli spettatori quanto alle loro sensazioni. In un film in costume, fatto ai giorni nostri, era molto importante avere dei colori così vibranti, simili ai personaggi descritti. Sono un fan della fotografia a colori, non potrei mai girare in bianco e nero non perché non ami quel tipo di regia ma semplicemente perché non si adatta a me. La grande sfida è stata il mettere in scena in digitale, fattore che ha dato una sorta di elettricità ai colori e ha dato forza soprattutto al rosso, una tonalità che amo particolarmente.
Questo eccesso è legato alla ricerca delle due sorelle, è un elemento peculiare del film e si nota anche a livello stilistico, con una teatralità che porta alla costruzione di scene che sembrano quasi dei quadri. Che cosa ci può dire a riguardo?
Da sempre sono interessato al dramma e all’azione e devo ammettere che nell’uso dei colori una grande influenza mi viene da Almodóvar. L’aspetto teatrale, come ha sottolineato nella sua domanda, è fondamentale nel film. Questo elemento è legato a livello narrativo alla ricerca delle due sorelle e alla loro ossessione, mentre su un piano stilistico mi permette di allontanarmi da una regia troppo contemporanea. La teatralità mi consente di trasmettere quella sensazione di ricerca continua, quasi senza respiro. È rischioso, perché alcune volte funziona, altre volte no, ma dà la possibilità di arrivare direttamente al cuore di chi guarda.
Quale rapporto ha con il cinema italiano e come descriverebbe l’attuale scena brasiliana?
Partiamo dal mio rapporto con il cinema italiano: nella mia vita ho amato due film più di tutti gli altri in assoluto. Uno di questi è Deserto rosso di Michelangelo Antonioni. Credo che sia un vero e proprio capolavoro, uno dei film più belli mai girati. Amo molto anche Pasolini, in particolare credo che i suoi lavori migliori siano Accattone e Mamma Roma. Se mi chiedessero di fare un remake, probabilmente lo farei proprio di Mamma Roma perché ha quel senso dell’eccesso di cui ho detto in precedenza, in particolare per la straordinaria interpretazione di Anna Magnani. C’è un grande senso di visualità. Nel girare La vita invisibile di Eurídice Gusmão, alle mie attrici ho mostrato proprio Mamma Roma e Una moglie di John Cassavetes per far loro capire quale tipo di personaggio volessi creare. Amo il cinema italiano perché racconta perfettamente la realtà. Passando alla scena brasiliana, posso dire di far parte di una generazione che ha iniziato a lavorare agli inizi del 2000. La grandezza di questa generazione è la varietà. Io non sono né di Rio né di San Paolo, sono nato a Fortaleza, nel nord-est del Brasile, e non avrei mai pensato di fare il regista. La scena cinematografica ha dato la possibilità a tutti di potersi esprimere con prodotti molto diversi tra loro. C’è un’atmosfera molto vibrante nel Paese e i film che vengono realizzati riescono a trasmetterla al meglio. Proprio per questo ritengo che il premio vinto a Cannes sia anche un riconoscimento alla nostra generazione.
Sergio