Killers of the Flower Moon recensione film di Martin Scorsese con Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, Lily Gladstone, Jesse Plemons, Brendan Fraser, John Lithgow, Tantoo Cardinal e Cara Jade Myers
Killers of the Flower Moon: nella trappola di un grande Scorsese
La storia degli Stati Uniti d’America bianchi e cristiani ha un’origine violenta, d’esproprio e prevaricazione. Scorsese in Killers of the Flower Moon racconta un genocidio ai danni dei nativi americani della tribù Osage, portando su schermo un tipo di violenza diverso da quello dei conquistadores e dei marinai europei all’arrivo nel Nuovo mondo.
La violenza di Killers of the Flower Moon è sistemica, istituzionalizzata e lascia le sue vittime senza possibilità di difendersi, perché trasforma gli aguzzini in ombre indefinibili, che spesso si nascondono dietro facce amiche. L’assunto potentissimo che si porta dietro il nuovo film di Martin Scorsese è che l’avidità, la prevaricazione e il razzismo corrono nel DNA stesso della nazione.
Per dimostrare questo assioma, il momento storico perfetto è l’inizio del Novecento, quando la grande epoca della Frontiera si va esaurendo. Scorsese gira un western sugli ultimi giorni del selvaggio West, dove è facilissimo individuare l’arrivismo e il sopruso prodromi di quella malavita e di quei gangster che ha raccontato per molti decenni del suo cinema.
Un western fatto da gangster con la faccia pulita o un gangster movie in cui i cattivi non sono gli italoamericani ma i più bianchi e comprensivi tra gli americani “puri”, costretti a vivere a stretto contatto con chi hanno cacciato nelle riserve: questo è Killers of the Flower Moon, oltre che un thriller, la dissezione di un’amore tossico, con una spruzzata di legal drama. Con tre ore e ventisei minuti di durata, a Scorsese non manca il tempo per imbastire discorsi e pian piano tirare le fila della sua riflessione; brutale, amarissima.
Basato su un’atroce cronaca giudiziaria, Killers of the Flower Moon racconta come un manipolo di uomini bianchi abbia tentato in ogni modo possibile di decimare la tribù degli Osage, divenuta ricchissima per uno scherzo del destino. Trasferiti di riserva in riserva, ottengono infine una landa di terra inospitale che si rivelerà ricchissima di petrolio, rendendo ogni indiano purosangue partecipe dei profitti dell’estrazione dai pozzi.
Anche se non ci sono cowboy a cavallo, siamo nel West: quello vero, dove la legge e le regole non esistono, specialmente per un gruppo marginalizzato come i nativi, frodati e derubati in scala microscopica e macroscopica. In uno dei passaggi più intensi del film scoppia un incendio che unisce con un filo rosso Tulsa e Osage, gli afroamericani (a cui si tenta persino di addossare la colpa), il KKK e i nativi.
Non è una visione facile, quella proposta da Scorsese. D’altronde l’intento è farci sentire in trappola, esattamente come i protagonisti nativi, a partire da Mollie Burkhart (Lily Gladstone). Già in avvio del film gli anziani piangono la fine della purezza della tribù, la consapevolezza che i figli impareranno la lingua e gli usi dei bianchi. Non possono immaginare che “la coperta che portiamo sulle spalle è un bersaglio”.
Nel libro da cui è tratto il nuovo Scorsese il personaggio di Mollie non è centrale quanto nell’adattamento filmico. È un cambiamento di prospettiva voluto da Scorsese che si rivela cruciale, anche considerando la strepitosa performance che dà Lily Gladstone. La sua Mollie è giudiziosa, altera, acuta: una donna consapevole di essere circuita per il proprio denaro, accerchiata da sorridenti volti che nascondono menti e cuori ostili ma senza i mezzi per potersi salvare da sola. La nostra odissea è quella di essere testimoni di tre ore di suoi lutti e lacrime.
Testimoni più consapevoli di lei, che non sa da che parti arrivino gli attacchi mortali a lei e alla sua famiglia. Noi invece seguiamo un’altra tragedia: quella di Ernest, suo marito, forse il personaggio più miserabile mai interpretato da Leonardo DiCaprio. Cosa c’è di peggio di uno sciocco che non sa di esserlo? Forse solo un uomo orrendo capace però di convincersi di essere una brava persona e un ottimo capofamiglia. Pur avendo un’ottica comprensibilmente maschile, Scorsese qui riesce a dare uno dei ritratti più angoscianti visti al cinema del processo di gaslighting, ovvero quella serie di pratiche volte a far dubitare alla vittima di aver solo immaginato soprusi e abusi mettendo in discussione la propria lucidità, tramite l’inganno e l’intimidazione.
È difficile dire quale sia la fine peggiore per le protagoniste di Killers of the Flower Moon, sorelle e parenti di Mollie, prede da matrimonio, carne da macello. È peggio vedere i resti del cervello di una donna che escono dal suo cranio o assistere alla lenta sostituzione etnica dei propri cari con tante, troppe facce bianche, arrivando al punto di chiedere a ogni nuova morte se si tratti di suicidio o omicidio.
C’è persino una punta d’ironia nera in questo Scorsese, che rende il personaggio di DiCaprio il meno stereotipico possibile per lui: sgradevole, stolto e pure dipendente dallo zio King, il vero Mago di Oz della situazione. Un ruolo via via più viscido che De Niro si rigira tra le dita con l’abilità di un prestigiatore, chiudendo un triangolo perfetto d’interpretazioni stellari.
Il governo, la legge, la giustizia e la speranza si palesano tardissimo, a fine film, insieme ad attori che sappiamo essere nel cast e che improvvisamente ci chiediamo se appariranno o meno (Brendan Fraser passa tre ore e rotte in panchina prima di apparire). L’arrancare della giustizia è l’ennesima, amarissima stilettata di un film a cui si può rimproverare solo di perdersi tra parecchie sequenze accessorie ed eliminabili nella parte centrale.
Scorsese è davvero in ottima forma, brutale e vitale come un regista con poco più di vent’anni, il maestro di sempre per raccontare con movimenti di macchina e composizioni magistrali gli eventi con la loro forza, la loro emozione. Come sceneggiatore poi è capace di non contraddire la storia (fatta da bianchi nel ruolo di carnefici e salvatori) dando però spazio al dolore e alla dignità delle vittime. I tre protagonisti sono davvero eccellenti, ma la Gladstone è eccezionale.